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I lupi sono più numerosi degli agnelli, ma non più forti

Io sono il Pastore buono è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine, così amata e rassicurante, non è solo consolatoria, non ha nulla di romantico: Gesù è il pastore autentico, il vero, forte e combattivo, che non fugge a differenza dei mercenari, che ha il coraggio per lottare e difendere dai lupi il suo gregge.
Io sono il Pastore bello dice letteralmente il testo evangelico, e noi capiamo che la bellezza del pastore non sta nel suo aspetto esteriore, ma che il suo fascino e la sua forza di attrazione vengono dal suo coraggio e dalla sua generosità.
La bellezza sta in un gesto ribadito cinque volte oggi nel Vangelo: io offro! Io non domando, io dono. Io non pretendo, io regalo. Ma non per avere in cambio qualcosa, non per un mio vantaggio. Bello è ogni atto d'amore.
Io offro la vita è molto di più che il semplice prendersi cura del gregge.
Siamo davanti al filo d'oro che lega insieme tutta intera l'opera di Dio, il lavoro di Dio è da sempre e per sempre offrire vita. E non so immaginare per noi avventura migliore: Gesù non è venuto a portare un sistema di pensiero o di regole, ma a portare più vita (Gv 10,10); a offrire incremento, accrescimento, fioritura della vita in tutte le sue forme.
Cerchiamo di capire di più. Con le parole Io offro la vita Gesù non intende il suo morire, quel venerdì, per tutti. Lui continuamente, incessantemente dona vita; è l'attività propria e perenne di un Dio inteso al modo delle madri, inteso al modo della vite che dà linfa ai tralci, della sorgente che dà acqua viva.
Pietro definiva Gesù «l'autore della vita» (At 3,15): inventore, artigiano, costruttore, datore di vita. Lo ripete la Chiesa, nella terza preghiera eucaristica: tu che fai vivere e santifichi l'universo.
Linfa divina che ci fa vivere, che respira in ogni nostro respiro, nostro pane che ci fa quotidianamente dipendenti dal cielo.
Io offro la vita significa: vi consegno il mio modo di amare e di lottare, perché solo così potrete battere coloro che amano la morte, i lupi di oggi.
Gesù contrappone la figura del pastore vero a quella del mercenario, che vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge perché non gli importa delle pecore. Invece al pastore buono ogni pecora importa e ogni agnello, a Dio le creature stanno a cuore. Tutte. Ed è come se a ciascuno di noi ripetesse: tu sei importante per me. E io mi prenderò cura della tua felicità.
Ci sono i lupi, sì, ma non vinceranno. Forse sono più numerosi degli agnelli, ma non sono più forti. Perché gli agnelli vengono, ma non da soli, portano un pezzetto di Dio in sé, sono forti della sua forza, vivi della sua vita.

padre Ermes Ronchi

Testimoni del Risorto con lo stupore dei bambini

Non sappiamo dove sia Emmaus, quel nome è un simbolo di tutte le nostre strade, quando qualcosa sembra finire, e si torna a casa, con le macerie dei sogni. Due discepoli, una coppia, forse un uomo e una donna, marito e moglie, una famigliola, due come noi: «Lo riconobbero allo spezzare del pane», allo spezzare qualcosa di proprio per gli altri, perché questo è il cuore del Vangelo. Spezzare il pane o il tempo o un vaso di profumo, come a Betania, e poi condividere cammino e speranza.
È cambiato il cuore dei due e cambia la strada: «Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme». L'esilio triste diventa corsa gioiosa, non c'è più notte né stanchezza né città nemica, il cuore è acceso, gli occhi vedono, la vita è fiamma. Non patiscono più la strada: la respirano, respirando Cristo. Diventano profeti.
Stanno ancora parlando e Gesù di persona apparve in mezzo a loro, e disse: Pace a voi. Lo incontri e subito sei chiamato alla serenità: è un Signore che bussa alla mia vita, entra nella mia casa, e il suo saluto è un dono buono, porta pace, pace con me stesso, pace con chi è vicino e chi è lontano. Gesù appare come un amico sorridente, a braccia aperte, che ti accoglie con questo regalo: c'è pace per te.
Mi colpisce il lamento di Gesù: «Non sono un fantasma». Umanissimo lamento, c'è dentro il suo desiderio di essere accolto come un amico che torna da lontano, da stringere con slancio, da abbracciare con gioia. Non puoi amare un fantasma. E pronuncia, per sciogliere dubbi e paure, i verbi più semplici e più familiari: «Guardate, toccate, mangiamo insieme!». Gli apostoli si arrendono ad una porzione di pesce arrostito, al più familiare dei segni, al più umano dei bisogni.
Lo conoscevano bene, Gesù, dopo tre anni di strade, di olivi, di pesci, di villaggi, di occhi negli occhi, eppure non lo riconoscono. E mi consola la fatica dei discepoli a credere. È la garanzia che la Risurrezione di Gesù non è un'ipotesi consolatoria inventata da loro, ma qualcosa che li ha spiazzati.
Il ruolo dei discepoli è aprirsi, non vergognarsi della loro fede lenta, ma aprirsi con tutti i sensi ad un gesto potente, una presenza amica, uno stupore improvviso.
E conclude oggi il Vangelo: di me voi siete testimoni. Non predicatori, ma testimoni, è un'altra cosa. Con la semplicità di bambini che hanno una bella notizia da dare, e non ce la fanno a tacere, e gli fiorisce dagli occhi. La bella notizia: Gesù non è un fantasma, è potenza di vita; mi avvolge di pace, di perdono, di risurrezione. Vive in me, piange le mie lacrime e sorride come nessuno. Talvolta vive "al posto mio" e cose più grandi di me mi accadono, e tutto si fa più umano e più vivo.

padre Ermes Ronchi

Gesù non si scandalizza davanti ai dubbi di Tommaso

Otto giorni dopo venne Gesù, a porte chiuse. Mi conforta pensare che, se anche trova chiuso, Lui non se ne va, ma continua il suo assedio dolce e implacabile. Otto giorni dopo è ancora lì: l'abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare, il tradito ritorna da quelli che lo hanno consegnato ai nemici. Venne e stette in mezzo a loro. Le sue apparizioni non hanno mai il clamore di una imposizione. Non si preoccupa di sé, il Risorto, ma del pianto di Maddalena, delle donne che vanno, anzi corrono per profumare il suo corpo straziato, delle paure degli apostoli, delle difficoltà di Tommaso, delle reti vuote dei suoi amici quando tornano sul lago dove tutto ha avuto inizio. Ha ancora e sempre quel grembiule ai fianchi! Non viene a chiedere, viene a portare aiuto. Per questo è inconfondibile.
Pace a voi. Non si tratta di un semplice augurio, ma di una affermazione: c'è pace per voi, è pace dentro di voi, pace crescente. Shalom, ha detto, ed è parola biblica che contiene molto di più della semplice fine delle guerre o delle violenze, porta la forza dei retti di cuore dentro le persecuzioni, la serenità dei giusti dentro e contro le ingiustizie, una vita appassionata dentro vite spente, pienezza e fioritura.
Soffiò e disse: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, il vento sottile dell'Oreb su Elia profeta, quello che scuoterà le porte chiuse del cenacolo: ecco io vi mando! E li manda così come sono, fragili e lenti, ma con in più la sua forza, il suo Spirito, il vento forte della vita che soffierà su di loro, e gonfierà le vele, e li riempirà di Dio.
Tommaso, metti qua il dito nel foro dei chiodi, stendi la mano, tocca! Gesù risorto non porta altro che le piaghe del crocifisso, porta l'oro delle ferite che ci hanno guarito. Nelle ferite c'è l'oro dell'amore. Le ferite sono sacre, c'è Dio nelle ferite, come una goccia d'oro. Gesù non si scandalizza dei dubbi di Tommaso, non gli rimprovera la fatica di credere, ma si avvicina ancora, e tende quelle mani dove l'amore ha scritto il suo racconto d'oro. A Tommaso basta questo gesto. Chi ti tende la mano, chi non ti giudica ma ti incoraggia, e ti offre una mano dove riposare e riprendere il fiato del coraggio, è Gesù. Non ti puoi sbagliare!
Beati quelli che non hanno visto eppure credono! una beatitudine che sento mia, che è facile, è per tutti, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia. Per noi, che di otto giorni in otto giorni, continuiamo a radunarci nel suo nome, a distanza di millenni; beati noi che «lo amiamo pur senza averlo visto» (1Pt 1,8).

padre Ermes Ronchi

Pasqua è qui, adesso

Come il sole, Cristo ha preso il proprio slancio nel cuore di una notte: quella di Natale – piena di stelle, di angeli, di canti, di greggi- e lo riprende in un’altra notte, quella di Pasqua: notte di naufragio, di terribile silenzio, di buio ostile su di un pugno di uomini e di donne sgomenti e disorientati. Le cose più grandi avvengono di notte. Maria di Magdala esce di casa quando è ancora buio in cielo e buio in cuore. Non porta olii profumati o nardo, non ha niente tra le mani, ha solo la sua vita risorta: da lei Gesù aveva cacciato sette demoni. Si reca al sepolcro perché si ribella all’assenza di Gesù: “amare è dire: tu non morirai!” (Gabriel Marcel). E vide che la pietra era stata tolta. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente nel fresco dell’alba, aperto come il guscio di un seme. E nel giardino è primavera. I vangeli di Pasqua iniziano raccontando ciò che è accaduto alle donne in quell’alba piena di sorprese e di corse. La tomba, che avevano visto chiudere, è aperta e vuota. Lui non c’è. Manca il corpo del giustiziato. Ma questa assenza non basta a far credere: hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo. Un corpo assente. È da qui che parte in quel mattino la corsa di Maddalena, la corsa di Pietro e Giovanni, la paura delle donne, lo sconcerto di tutti. Il primo segno è il sepolcro vuoto, e questo vuol dire che nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto degli uccisi. Una tomba è vuota: manca un corpo alla contabilità della morte, i suoi conti sono in perdita. Manca un corpo al bilancio della violenza, il suo bilancio è negativo. La Risurrezione di Cristo solleva la nostra terra, questo pianeta di tombe, verso un mondo nuovo, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove gli imperi fondati sulla violenza crollano, e sulle piaghe della vita si posa il bacio della speranza. Pasqua è il tema più arduo e più bello di tutta la Bibbia. Balbettiamo, come gli evangelisti, che per tentare di raccontarla si fecero piccoli, non inventarono parole, ma presero in prestito i verbi delle nostre mattine, svegliarsi e alzarsi: si svegliò e si alzò il Signore. Ed è così bello pensare che Pasqua, l’inaudito, è raccontata con i verbi semplici del mattino, di ognuno dei nostri mattini, quando anche noi ci svegliamo e ci alziamo. Nella nostra piccola risurrezione quotidiana. Quel giorno unico è raccontato con i verbi di ogni giorno. Pasqua è qui, adesso. Ogni giorno, quel giorno. Perché la forza della Risurrezione non riposa finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione, e non abbia rovesciato la pietra dell’ultima tomba (H. U.Von Balthasar).

padre Ermes Ronchi

La lezione di “vita” del chicco che “muore”

Gesù entra a Gerusalemme, non solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d'amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga. Dio corteggia la sua città, in molti modi. Viene come un re bisognoso, così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Dio umile che non si impone, non schiaccia, non fa paura. «A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco).
Il Signore ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito. Ha bisogno di quel puledro d'asino, di me, ma non mi ruberà la vita; la libera, invece, e la fa diventare il meglio di ciò che può diventare. Aprirà in me spazi al volo e al sogno.
E allora: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, in ogni casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene, eternamente incamminato, viaggiatore dei millenni e dei cuori. E non sta lontano.
La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. La cosa più bella da fare per viverli bene è stare accanto alla santità profondissima delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Stare accanto, con un gesto di cura, una battaglia per la giustizia, una speranza silenziosa e testarda come il battito del cuore, una lacrima raccolta da un volto.
Gesù entra nella morte perché là è risucchiato ogni figlio della terra. Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in croce. Perché l'amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere con l'amato, stringersi a lui, stringerlo in sé, per poi trascinarlo in alto, fuori dalla morte.
Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. La croce è l'abisso dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. L'ha capito per primo un pagano, un centurione esperto di morte: costui era figlio di Dio. Che cosa l'ha conquistato? Non ci sono miracoli, non risurrezioni, solo un uomo appeso nudo nel vento. Ha visto il capovolgimento del mondo, dove la vittoria è sempre stata del più forte, del più armato, del più spietato. Ha visto il supremo potere di Dio che è quello di dare la vita anche a chi dà la morte; il potere di servire non di asservire; di vincere la violenza, ma prendendola su di sé.
Ha visto, sulla collina, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. E il Crocifisso ne possiede la chiave.

padre Ermes Ronchi

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