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Vuoi essere grande? Diventa servo di tutti

"Per via avevano discusso chi fosse il più grande". Chi è il più bravo, il più capace, il migliore tra noi? È l'istinto primordiale del potere che si dirama dovunque, nella famiglia, nel gruppo, nella parrocchia, sul posto di lavoro, tra i ricchi e tra i poveri alle porte della chiesa, tra i potenti e tra gli schiavi. A questo protagonismo che è il principio di distruzione di ogni comunità, Gesù contrappone il suo mondo nuovo.

«Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo, il servo di tutti». Il più grande è chi non si serve dell'altro, ma lo serve; chi non prende vite d'altri per i suoi scopi, ma suo scopo è la vita di qualcuno; chi saluta anche quelli che non lo salutano. Che il servizio sia la realizzazione più alta del vivere poteva essere vero per Gesù. Ma per noi? Servire: verbo dolce e pauroso insieme, che evoca sforzo e sacrificio, croce e sofferenza. La nostra gioia è comandare, ottenere, possedere, essere i migliori. Non certo essere i servi. E poi, servo "di tutti", senza limiti di gruppo, di etnìa, senza esclusioni, senza preferire i miei amici ai lontani, i poveri buoni ai poveri cattivi. La novità di Cristo: parole mai pensate, mai dette, liberate ora per raggiungere i confini del mondo intero. Sono quelle frasi abissali: o ti conquistano o le cancelli per paura che siano loro ad abbattere il tuo sistema di vita.

«Gesù prese un bambino, lo pose in mezzo e lo abbracciava dicendo: chi accoglie uno di questi bambini accoglie me». Accogliere un bambino significa entrare nel suo mondo, grande appena quanto lo spazio dove arriva il grido con cui chiama la madre; il bambino che non basta a se stesso e vive solo se è amato; che riceve tutto e può dare così poco; improduttivo eppure tranquillo davanti al futuro, sicuro non di sè, ma dei suoi genitori; forte non della propria forza, ma di quella con cui lo sollevano le braccia del padre. La sua debolezza è la sua forza. «Se non diventerete come bambini», se non ritroverete lo stupore di essere figli, figli piccolini che sanno piangere che imparano a ridere, figli la cui forza è il Padre, non entrerete nel Regno.

«Chi accoglie un bambino, accoglie me, accoglie il Padre». Mi commuove l'ottimismo di Dio: il bambino è sua immagine; non tanto l'uomo, ma proprio il bambino. L'eterno si abbrevia nel frammento, anche lui vive solo se è amato. L'immagine ultima del vangelo di oggi è Gesù abbracciato ad un bambino. In tutta la sua vita si è "affannato" ad annunciare che Dio è solamente buono, padre che scorge il figlio da lontano e gli si butta al collo, pastore in cerca della pecora perduta, che trova e se la pone sulle spalle. E che a noi non resta che farci prendere in braccio.

Ermes Ronchi

L'occasione

Ambiguità, incoerenza. 

Gesù preferisce le storie rotte a quelle perfette, le vite incamminate a quelle stanziali.

Quando sono vero sono debole. Quando siamo veri siamo tutti feriti. Ma quando sono debole è allora che sono forte, perché entra in me il vasaio che mi rimette sul tornio, che fa dei miei cocci un canale per altre sedi.

E per la strada interrogava.

Gesù non è la risposta alle nostre domande, è lui la domanda; ogni sua parola porta scritto: più in là! La sua dimora è sempre oltre.

Ma la gente, chi dice che io sia?

Gesù non vuole un sondaggio per misurare la sua popolarità, vuole capire cosa del suo messaggio ha raggiunto il cuore.

Infatti la risposta della gente rivela un’idea sbagliata di lui: per qualcuno è un moralizzatore di costumi, tipo Giovanni il Battista; per altri è forza che abbatte i falsi profeti, come Elia; altri ancora colgono solo l’eco di vecchi messaggi già ascoltati, lui è “uno dei profeti”.

Ma Gesù non è niente fra le cose di ieri. È novità in cammino.

E il domandare si fa più diretto: ma voi chi dite che io sia?

Innanzitutto mette in discussione se stesso. Sottoporsi alla valutazione altrui costa molta umiltà e libertà, e con questa domanda Gesù si comporta da innamorato: Quanto conto io per te?

Non ha bisogno di sapere se lo ritengono più bravo dei profeti di prima, lui vuole sapere se Pietro è innamorato, se l’ha accolto nel cuore, se gli da tempo e passione. Tu sei il Cristo, Pietro è irruente, sei il senso di Israele e della mia vita.

A questo punto Gesù cominciò a insegnare che il Cristo doveva soffrire e venire ucciso, per poi risorgere il terzo giorno.

Ma come fa Pietro ad accettare un messia perdente? “Tu sei il messia, l’atteso, che senso ha un messia sconfitto?”

Allora Gesù lo prende in disparte. E qui la tensione si alza, fino a che il dialogo culmina in parole durissime: va dietro di me, satana. Il tuo posto è seguirmi.

Pietro è la voce di ogni ambiguità umana, e la soluzione è quella indicatagli: va dietro di me.

Gesù ha accarezzato le mie ferite e contraddizioni, e mi fa camminare proprio lì, lungo la “linea incerta che addividi la luci dallo scuru” (A. Camilleri).

Il miracolo è che la debolezza, la fatica, l’ambiguità incolpevole, grano e zizzania intrecciati, le notti senza frutto, i rinnegamenti, non sono un’obiezione, ma un’occasione per essere fatti nuovi, per stare bene con il Signore, per rinnovare la nostra passione per lui e per ricominciare, attraverso inizi sempre nuovi: Tu seguimi!

Ti seguirò, Signore. Con le parole più belle che ho per te: tu sei per me quello che è la primavera per i fiori, quello che il vento è per l’aquilone.

Sei venuto con il soffio di un bacio sulla fronte, e hai aperto la mia strada.

Ermes Ronchi

La sorgente pulita

Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano. Gesù indirizza la nostra attenzione verso il cuore, quegli oceani interiori che ci minacciano e che ci generano; che ci sommergono talvolta di ombre e di sofferenze ma che più spesso ancora producono isole di generosità, di bellezza e di luce.

Gesù veniva dai campi del mondo dove piange e ride la vita, veniva dai villaggi dove il suo andare era un perenne bagno nel dolore. Dovunque arrivava, gli portavano i malati sulle piazze, sulle porte, li calavano dai tetti. E mendicanti ciechi lo chiamavano, donne piagate di Tiro e da Sidone cercavano di toccargli la frangia del mantello, o almeno che la sua ombra passasse sopra di loro come una carezza.

E ora che cosa trova? Gente che collega la religione a macchioline, a mani e piatti lavati, a oggetti esteriori, che collocano il male all'esterno e non nell'interiorità.

Gesù, anziché scoraggiarsi, diventa eco del grido antico dei profeti: è dal cuore degli uomini che escono le intenzioni cattive. E inaugura così la religione dell'interiorità, proponendo una radicale “ecologia del cuore”: curare il cuore per guarire la vita.

Il problema centrale è pulire non le mani, ma la sorgente.

Che vuol dire attenzione, premura, terapia intensiva del nostro piccolo Eden interiore, dove nascono i sogni, dove intrecciano le loro radici energie bellissime e generative, piante guaritrici e le spine di vecchie ferite, l'infinito e il quotidiano, attorno all'albero sempre verde della vita.

La nostra sorgente è sana; l'uomo non è cattivo, solo che si sbaglia facilmente. Ma non esiste vicenda umana senza un grammo di luce: perché ogni cosa è “tôv”, bella e buona, illuminata, l'intero creato è un atto d'amore sussurrato.

Che aria di libertà! Apri il vangelo e senti che ti riporta a casa. Senti una boccata d'aria fresca dentro l'afa pesante dei soliti, piccoli discorsi, uno spruzzo d'acqua fresca e buona come l'essenziale.

Qual è la differenza tra superfluo ed essenziale?

Non ho più dimenticato un antico professore che me lo spiegava così: superfluo è tutto ciò che va dalla pelle in fuori; essenziale è tutto ciò che va dalla pelle in dentro. I farisei andavano dalla pelle in fuori: lava, pulisci risciacqua, spolvera. Gesù va dalla pelle in dentro.

Ritorna al tuo cuore: per quasi mille volte nella Bibbia ricorre il termine cuore, che non indica la sede dei sentimenti o delle emozioni, ma il luogo dove nascono le azioni e i sogni, dove si sceglie la vita o la morte, Dove si è felici o no. Dove ci sono campi di grano e anche erbe cattive.

Gesù vuole evangelizzare il cuore, far scendere vangelo sulle nostre zolle di durezza e sui desideri oscuri.

Tu non concederai loro il diritto di sedere alla tua tavola, non permettere loro di galoppare sulle praterie del tuo cuore, perché tracciano strade di morte.

Evangelizzare significa far scendere sul cuore un messaggio felice, e quello di Gesù ribadisce che la sorgente è pura, ma ha bisogno della tua cura.

Custodisci con ogni cura il tuo cuore, perché da esso sgorga la vita (Proverbi 4,23).

Bellissimo compito profetico: chiamati tutti a bypassare tanta polvere, tanto fumo, tanta apparenza.

Liberiamo la Parola di Dio dai sequestri anche ecclesiastici, da regoline, da piccolezze polverose che rubano luce al messaggio, e il vangelo ci darà ali per volare su un mondo bello, su un mondo nato buono.

Ermes Ronchi

La stanza oscura


C’è una casa a Cafarnao, dove la morte ha messo il nido.  

Una dimora importante, quella del capo della sinagoga, eppure impotente a garantire la vita di una bambina. Giairo ha preso il mantello ed è uscito, ha camminato in cerca di Gesù, e Gesù interrompe ciò che sta facendo e si mette a camminare con lui. Sulle frontiere tra la vita e la morte. Stare con il dolore degli altri diventa uno dei gesti cristiani più rivoluzionari.

Perché il dolore, il dolore innocente? I figli di tanti Giairo muoiono in un’età in cui invece è d’obbligo fiorire, non soccombere. Eppure Gesù non dà una risposta, dà altro: il dolore non domanda spiegazioni, ma condivisione: “e andò con lui”.

 “Non temere, soltanto continua ad aver fede”, quella che ti ha fatto uscire di casa in cerca di aiuto e di ascolto. Ma come è possibile non temere, non essere nella paura quando la morte si è portata via il mio sole? Il contrario della paura non è il coraggio, è la fede, atto umanissimo che tende alla vita! Che dice: ho bisogno, mi fido, mi affido. Sulla tua parola getterò le reti, anzi: nelle tue mani getto la vita!

Giunsero alla casa e vide gente che piangeva e gridava. Disse loro: “Perché piangete? Non è morta, ma dorme”. Coloro che noi chiamiamo ‘morti’ dormono a questa vita nostra, ma in realtà sono stati presi per mano e si sono alzati, come la bimba di Giairo.

Lo deridono. Con quella derisione con cui dicono anche a noi: ma tu credi alla resurrezione? Ti illudi, non c’è niente dopo la morte. Ma la fede assicura che Dio è dei vivi e non dei morti, che dire Dio è dire risurrezione.

Gesù cacciò tutti fuori di casa. Caccia via quelli che non credono che Dio inonda di vita anche le strade della morte.

Gesù prende con sé il padre e la madre. Li prende con sé perché il tempo dell’amore è infinitamente più lungo del tempo della vita. La vita finisce ma l’amore no.

E ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore. Ogni bambino, dice alla mamma: tu non morirai mai!

Ed entrò dove era la bambina.

E non è solo la stanzetta interna della casa, è la stanza più oscura del mondo, quella senza luce: l’esperienza della morte, dove anche Gesù entrerà, per essere come noi.

Poi la prende per mano. Dio non è un dito puntato, ma una mano che ti prende per mano. E mostra che bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare. Toccare le loro lacrime.

E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Tocca a te farlo: rimettiti in piedi, sulle tue gambe, con le tue risorse.

Qualunque sia il dolore che portiamo dentro, qualunque sia la morte che ci assedia, il Signore ripete: alzati!

E subito la bambina si alzò e camminava. Restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita incamminata e verticale. Là dove ci siamo fermati, Dio continua a farci ripartire.

E ripete su ogni essere la benedizione delle antiche parole: Talità kum, giovane vita, alzati, rivivi, risplendi.

E aggiunge: datele da mangiare, nutrite di sogni, di carezze e di fiducia il suo rinato cuore bambino.

E ci rialzerà tutti, trascinandoci su, in alto, dentro la sua risurrezione.

P. Ermes Ronchi

Un granello di quiete

La nostra vita è come il mare di Galilea, a volte calmo e a volte in tempesta, ma le nostre instabili e piccole barche sono state costruite non per restare ancorate in porto, ma per prendere il largo.

Siamo tutti naviganti, non possiamo fare a meno di attraversare il lago.

“Passiamo all’altra riva” dice Gesù, e i discepoli accolgono il suo invito e si mettono in barca: e lo presero con sé, così com’era.

Gesù è talmente stanco che nella traversata si addormenta.

Improvvisa sul lago si scatena la tempesta. E Gesù dorme:, affidandosi ai suoi ragazzi, loro sì esperti di lago.

“Non ti importa che moriamo?”

La risposta, senza parole, è raccontata dai gesti “minacciò il vento, parlò al mare, che assicurano a ciascuno: mi importa di te, mi importa la tua vita, tu sei importante. Mi importano i passeri del cielo e tu vali più di molti passeri, mi importano i gigli del campo e tu sei più bello di loro. Tu mi importi al punto che ti ho contato i capelli in capo e tutta la paura che porti nel cuore.

E sono qui.

A farmi argine e confine alla tua paura. Sono qui nel riflesso più profondo delle tue lacrime.

La fede non è una assicurazione contro le burrasche della vita; le tempeste non si evitano e non si fuggono, si attraversano.

Perché avete così tanta paura?

Dio non è altrove e non dorme. È già qui, sta nelle braccia degli uomini, forti sui remi; sta nella presa sicura del timoniere; è nelle mani che svuotano l’acqua che allaga la barca; negli occhi che scrutano la riva, nell’ansia che anticipa la luce dell’aurora.

Il Signore salva attraverso persone (R. Guardini).

Dio è presente, ma a modo suo; vuole salvarmi, ma lo fa chiedendomi di mettere in campo tutte le mie capacità, tutta la forza del cuore e dell’intelligenza.

I discepoli vogliono un Dio che spazzi via le tempeste, e subito!

E invece Dio si fida di loro e li accompagna nel mezzo della burrasca. Non agisce al posto mio, ma insieme a me; non mi esenta dalla traversata, ma mi accompagna nell’oscurità. Non mi custodisce dalla paura, ma nella paura. Così come non ha salvato Gesù dalla croce, ma nella croce.

Perché avete paura? Non avete ancora fede?

I discepoli hanno fede sì, ma nel Dio che risolve i problemi, che tappa i buchi della nostra fragilità, lui invece scava pozzi di coraggio e dignità.

Non avete fede? Credere nel miracolo non è vera fede; troppo facile, troppo comodo. Quanta gente ha più fede nei miracoli che in Dio! “No, credere a Pasqua non è vera fede. Troppo bello sei a Pasqua. Fede vera è al venerdì santo….” (D. M. Turoldo).

Fede è perseverare nella burrasca.

E dopo che ha fatto tutto ciò che poteva al cristiano si apre lo spazio di un di più, un qualcosa che Lui solo ha, una pace sul mare, il miracolo imprevisto, il vento che tace, lo scintillio della fiducia negli altri.

Il di più di Dio, che non sta in riva al lago ad osservare, ma è presente nel buio, come granello di luce nella notte, granello di quiete, di fiducia, di bonaccia.

Che inonda di pace perfino le nostre tempeste.

P. Ermes Ronchi

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