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Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito

Oggi, la liturgia ci offre un aroma anticipato dell’allegria pasquale. Gli ornamenti del celebrante hanno un colore rosato. E’ la domenica “laetare” che ci invita ad una serena allegria «Festeggiate Gerusalemme, rallegratevi con essa voi tutti che l’amate...», canta l’antifona d’entrata.
Dio vuole che siamo contenti. La psicologia più elementare ci dice che una persona che non vive contenta, finisce ammalandosi fisicamente e spiritualmente. Orbene, la nostra allegria deve essere molto ben cimentata, dev’essere l’espressione della serenità di vivere una vita in tutta la sua pienezza. Diversamente l’allegria verrebbe a degenerarsi in superficialità e stupidaggine. Santa Teresa distingueva con saggezza tra la “santa allegria” e la “pazza allegria”. Quest’ultima è soltanto esterna, dura poco e lascia un sapore amaro.
Viviamo tempi difficili per la vita di fede.. Sono, però, pure tempi appassionanti. Soffriamo, in certo qual modo, l’esilio babilonico che canta il salmo. Sì, anche noi possiamo vivere un’esperienza d’esilio «Piangevano ricordandosi di Sion» (Sal 137,1). Le difficoltà esteriori, e specialmente il peccato, ci possono trasportare vicino ai fiumi di Babilonia. Nonostante tutto, ci sono motivi di speranza e Dio continua a dirci:«Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo» (Sal 137,6).
Possiamo vivere sempre contenti, perché Dio ci ama pazzamente, al punto «da dare il Figlio suo unigenito,» (Gv 3,16). Tra poco accompagneremo questo Figlio unico nel suo cammino di morte e risurrezione. Contempleremo l’amore di Colui che tanto ama, che si è offerto per noi, per te e per me. Ci riempiremo d’amore e vedremo Colui «che hanno trafitto» (Gv 19,37), e sorgerà in noi una gioia che nessuno potrà toglierci.
La vera allegria che illumina la nostra vita non procede da uno sforzo nostro. San Paolo ce lo ricorda: non procede da noi, è un dono di Dio, siamo opera sua (cf.Col 1.11). Lasciamoci amare da Dio ed amiamoLo, e l’allegria sarà grande nella prossima Pasqua e nella vita intera. Non dimentichiamo di lasciarci accarezzare e rigenerare da Dio con una buona confessione prima della Pasqua.

Rev. D. Joan Ant. MATEO i García (Tremp, Lleida, Spagna)

Tenere dentro un fuoco che brucia

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». […] In questo brano di Vangelo, incontriamo una parola che sembra messa lì quasi per caso, una parola un po’ desueta, che rimanda ad un sapore antico, ad un ricordo lontano: la parola zelo, che sta per ardore, fervore, passione; se andiamo al significato del suo termine greco, zèsis, troviamo ebollizione, significato che si ritrova anche nel sanscrito yas-ati: riscaldarsi, bollire. Ci sono cose, e sono le migliori, che si fanno solo per passione, quella passione che ci infoca, ci fa sdegnare e lottare di fronte alle ingiustizie e ai soprusi, in cui a spingerci è un impeto dinanzi allo sciupìo, o al disonore di una realtà. Sentiamo dentro una specie di furore che reclama rispetto, che grida e brucia. Anche noi siamo capaci di zelo, non quello che imprigiona e ci ingabbia nella rigidità di un pensiero o di una ideologia, non quello sbagliato di un possesso che non ammette libertà, ma anzi quello liberante, che sa aprire le sbarre di una prigionia, che fa volare. Che dà vita alle scintille. Questa passione anima Gesù, la passione per la sua “casa”: per il tempio che vede ridotto a mercato e per tutto quel che al mondo c’è di sacro. Bruciava Gesù quando piangeva su Gerusalemme e quando a Nain toccava la bara del bambino morto; ardeva quando davanti ad una folla di straccioni e miserabili li chiamava beati; e si scaldava di passione dinanzi al giovane ricco o a Zaccheo. È il fuoco di chi è perdutamente innamorato che parla alla samaritana, che salva l’adultera, che incrocia lo sguardo di Pietro subito dopo il suo tradimento. Quel fuoco che vuole restituire dignità e rispetto, fiducia e innocenza. La casa di Dio non è fatta solo di mattoni: com’era difficile da capire per i Giudei e a volte anche per noi: casa di Dio è il filo d’erba e il cuore dell’uomo, è la stella nel cielo e il bambino dalle mani sporche. Casa di Dio è tutto ciò che Lui può abitare, amandolo. Gesù vuole «incendiare le nostre abitudini» (Mariangela Gualtieri), appiccare un fuoco a tutto quel che sporca e disonora la sua casa, il sacro che ci abita e ci circonda. E noi altro non siamo che le scintille di quel fuoco, anche noi capaci di rompere il ghiaccio dell’indifferenza, di spezzare il gelo delle violenze, di sciogliere i lacci che annodano e soffocano. «Tieni dentro di te un piccolo fuoco che brucia; per quanto piccolo, per quanto nascosto» (Cormac McCarthy): tienilo dentro di te, non farlo spegnere, non permettere al freddo di insinuarsi, alle consuetudini di installarsi, alle comodità di accecarti. Scalda la vita con la tua passione.

Don Luigi Verdi

Sul monte con Gesù per imparare ad ascoltarlo


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Pietro, Giacomo e Giovanni, sempre loro tre: oggi testimoni di una bellezza inaspettata, tra qualche settimana testimoni di un altro volto del loro Maestro, quello dell’angoscia del Getsemani. Ma oggi guardano attoniti, là sul monte, perché le cose belle avvengono “in disparte” come a dire nel mistero del cuore, guardano incantati quel che sta avvenendo sotto i loro occhi. Occhi increduli, sbigottiti, come quelli dei bambini. O come i nostri occhi, quando improvvisamente incontrano i colori di un tramonto, o la bellezza di un albero fiorito e, sempre, quando siamo innamorati. Roba da mettersi la mano sulla bocca, da sentire il fiato mozzato dallo stupore: un’apnea di felicità. Così saranno rimasti quei tre sul monte nel vedere Gesù, ancora sporco e impolverato dal cammino, risplendere di luce, con il vestito così candido e radioso da attirare tutta la loro attenzione. Non si sa cosa dire quando qualcosa di tanto fulgidamente bello irrompe nella nostra vita, si resta a balbettare, a ripetere «che bello, ma che bello!» E capita anche a noi di voler prolungare quella luce, di cercare di estenderla nel tempo, di volerci accomodare nell’estasi di quel momento. Ma, lo sappiamo bene, dura poco, sul monte con Gesù come nella nostra vita: resta solo, nel petto, quello squarcio di luce. A incoraggiare nei momenti di buio, a ricordarci che la luce c’è. «Scavalcare il muro d’ombra di ciò che appare, per cogliere l’intimità di ciò che vive nel profondo delle cose. Superare il banco di nebbia degli avvenimenti per capirne le linee di tendenza e afferrarne il senso definitivo. Leggere in trasparenza» (don Tonino Bello). Come sarà stato difficile, anche per i tre discepoli, e non solo quando la nube li avvolse, leggere in trasparenza. Che vuol dire leggere aldilà, vedere oltre, trovare il tempo di vegliare e resistere su ciò che non si vede, di oltrepassare il visibile. Com’è difficile per noi oggi restare aggrappati a quei brevi momenti di luce, dar spazio a quella continua inquietudine d’infinito. Solo un invito viene fatto a noi e ai discepoli: «Ascoltatelo!», solo questo può bastare per far ritorno a malincuore, con gli occhi ancora abbagliati, tra la folla e le fatiche di ogni giorno. Non ci saranno parole a spiegare, a raccontare, a far solo lontanamente immaginare quel che è accaduto: che il silenzio custodisca la luce, la protegga e le permetta di straripare dentro la vita, perché «non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale» (Wisława Szymborska). Nel petto solo quello squarcio di luce, che ci abita e trasfigura anche noi. 

Don Luigi Verdi

E il deserto insegna a fidarsi e affidarsi


Il  Vangelo di questa domenica sembra condensare i nostri momenti più difficili e bui, sparge su di loro il profumo della vita, ci insegna, come sempre, a non aver paura. Gesù accarezza debolezze e fragilità, ci infonde calma e ci fa scoprire che in realtà anche il deserto è un momento sacro, pur se impastato e intriso di contraddizioni. Bestie ed angeli convivono, qualcosa ci spaventa e qualcosa ci consola, qualcuno ci accarezza mentre un altro ci ferisce. È bello che l’evangelista Marco non ci parli delle tentazioni, quelle che invece ci vengono raccontate da Matteo e Luca. Forse a Dio non importa la forza che mettiamo nel vincere le nostre debolezze; Dio non ci vuole eroi che riescono in tutto, ma pienamente umani. Lui sa bene che ci sono bestie ed angeli che ci accompagnano e ci chiede, piuttosto, di riuscire a stare in loro compagnia senza farcene spaventare, integrarle nel nostro faticoso vivere, come l’albero che accetta l’arsura dell’estate e il gelo dell’inverno. Arreso ma fiducioso.
Vorremmo che tutto fosse perfetto e scorresse placidamente senza intoppi e interruzioni, senza stridii e lacerazioni e invece questo Vangelo ci indica la strada della comprensione, del saper tutto accogliere e benedire: grano e zizzania lasciati crescere insieme, cielo e terra che coincidono.
Posso fidarmi, posso affidarmi. Anche quando tutto mi sembra stonato sento il sapore della vita che mi stringe alla vita, per cantare nel vento che spinge, nello Spirito che mi conduce a scoprire l’armonia presente nelle dissonanze. Come un abbraccio che tutto raccoglie.
«Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia», scrive Ungaretti , E è il supplizio di tutti: spezzati, divisi, lacerati. Continua, il Vangelo, con le parole di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino». Un “qui e ora” che interrompe le vuote attese, uno spazio e un tempo finalmente riempiti, un invito a scrutare nelle pieghe della vita perché lì, proprio lì, è imprigionata la luce. Basta guardare meglio: il paradiso trabocca dalla vita, granello di senape nascosto nell’attimo, pronto a crescere e farsi nido di nuovi germogli.
La zolla arida del nostro deserto sente e avverte il mistero della pioggia, si tende a riceverla, a farsi culla. «Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). E allora provo, come un fiore pestato nella notte, a fiorire come un arcobaleno. Provo a tornare povero come la natura e semplice come i cieli.
E sento nuovamente che la vita vera sta dietro a ciò che chiamiamo vita. Posso fidarmi, posso affidarmi. Il seme del regno è già qui, tra le mie mani tremanti, nel mio cuore incerto e dubbioso, ma qui. Ed è pronto a sbocciare.

Don Luigi Verdi

Dio vuole guarire tutti. Non rifiuta mai nessuno


Entra in scena un lebbroso, un disperato che ha perso tutto: casa, lavoro, amici, abbracci, dignità e perfino Dio. Quell'uomo che si sta decomponendo da vivo, per la società è un peccatore, rifiutato da Dio e castigato con la lebbra. Viene e si avvicina a Gesù, e non deve, non può, la legge gli impone la segregazione assoluta. Ma Gesù non scappa, non si scansa, non lo manda via, sta in piedi davanti a lui e ascolta. Il lebbroso avrebbe dovuto gridare da lontano, a chi incontrava: “immondo, contagioso”; invece da vicino, a tu per tu, sussurra: se vuoi puoi rendermi puro!

«Se vuoi». Il lebbroso naufrago si aggrappa a un “se”, è il suo “gancio in mezzo al cielo”, terra ferma dopo la palude. E mi pare di vedere Gesù vacillare davanti alla richiesta sommessa di questa creatura alla deriva. Vacillare, come chi ha ricevuto un colpo allo stomaco, un'unghiata sul cuore: «fu preso alle viscere da compassione».

«Se vuoi»... grande domanda: dimmi il cuore di Dio! Cosa vuole veramente per me? Vuole la lebbra? Che io sia l'immondizia del paese? È lui che manda il cancro?. Gesù vede, si ferma, si commuove e tocca. Da troppo tempo nessuno osava toccarlo, la sua carne moriva di solitudine. Gesù stende la mano e tocca l'intoccabile, contro ogni legge e ogni prudenza, lo tocca mentre è ancora contagioso; ed è così che inizia a guarirlo, con una carezza che arriva prima della voce, con dita più eloquenti delle parole. Toccare, esperienza di comunione, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), un comunicare la propria vicinanza, uno sfiorarsi, un brivido, un vibrare di Dio con me, di me con lui.

Poi, la risposta bellissima, la pietra d'angolo su cui poggia la nuova immagine di Dio: «voglio!» Un verbo totale, assoluto. Dio vuole, è coinvolto, gli importa, gli sta a cuore, patisce con me, urge in lui una passione per me, un patimento e un appassionarsi.

La seconda parola illumina la volontà di Dio: «sii purificato». Dio è intenzione di bene. Nessuno è rifiutato. Secondo la legge il lebbroso era escluso dal tempio, non poteva avvicinarsi a Dio finché non era puro. Invece quel giorno ecco il capovolgimento: avvicinati a Dio e sarai purificato. Accoglilo e sarai guarito.

E lo mandò via, con tono severo, ordinandogli di non dire niente. Ma il guarito non obbedisce: e si mise a proclamare il messaggio. L'escluso diventa fonte di stupore. Porta in giro la sua felicità, la sua esperienza felice di Dio. Chissà da quanti villaggi era dovuto scappare, e adesso è proprio nei villaggi che entra, cerca le persone da cui prima doveva fuggire, per dire che è cambiato tutto, perché è cambiata, con Gesù, l'immagine di Dio.

Padre Ermes Ronchi

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