Sul monte con Gesù per imparare ad ascoltarlo


In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». Pietro, Giacomo e Giovanni, sempre loro tre: oggi testimoni di una bellezza inaspettata, tra qualche settimana testimoni di un altro volto del loro Maestro, quello dell’angoscia del Getsemani. Ma oggi guardano attoniti, là sul monte, perché le cose belle avvengono “in disparte” come a dire nel mistero del cuore, guardano incantati quel che sta avvenendo sotto i loro occhi. Occhi increduli, sbigottiti, come quelli dei bambini. O come i nostri occhi, quando improvvisamente incontrano i colori di un tramonto, o la bellezza di un albero fiorito e, sempre, quando siamo innamorati. Roba da mettersi la mano sulla bocca, da sentire il fiato mozzato dallo stupore: un’apnea di felicità. Così saranno rimasti quei tre sul monte nel vedere Gesù, ancora sporco e impolverato dal cammino, risplendere di luce, con il vestito così candido e radioso da attirare tutta la loro attenzione. Non si sa cosa dire quando qualcosa di tanto fulgidamente bello irrompe nella nostra vita, si resta a balbettare, a ripetere «che bello, ma che bello!» E capita anche a noi di voler prolungare quella luce, di cercare di estenderla nel tempo, di volerci accomodare nell’estasi di quel momento. Ma, lo sappiamo bene, dura poco, sul monte con Gesù come nella nostra vita: resta solo, nel petto, quello squarcio di luce. A incoraggiare nei momenti di buio, a ricordarci che la luce c’è. «Scavalcare il muro d’ombra di ciò che appare, per cogliere l’intimità di ciò che vive nel profondo delle cose. Superare il banco di nebbia degli avvenimenti per capirne le linee di tendenza e afferrarne il senso definitivo. Leggere in trasparenza» (don Tonino Bello). Come sarà stato difficile, anche per i tre discepoli, e non solo quando la nube li avvolse, leggere in trasparenza. Che vuol dire leggere aldilà, vedere oltre, trovare il tempo di vegliare e resistere su ciò che non si vede, di oltrepassare il visibile. Com’è difficile per noi oggi restare aggrappati a quei brevi momenti di luce, dar spazio a quella continua inquietudine d’infinito. Solo un invito viene fatto a noi e ai discepoli: «Ascoltatelo!», solo questo può bastare per far ritorno a malincuore, con gli occhi ancora abbagliati, tra la folla e le fatiche di ogni giorno. Non ci saranno parole a spiegare, a raccontare, a far solo lontanamente immaginare quel che è accaduto: che il silenzio custodisca la luce, la protegga e le permetta di straripare dentro la vita, perché «non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale» (Wisława Szymborska). Nel petto solo quello squarcio di luce, che ci abita e trasfigura anche noi. 

Don Luigi Verdi

E il deserto insegna a fidarsi e affidarsi


Il  Vangelo di questa domenica sembra condensare i nostri momenti più difficili e bui, sparge su di loro il profumo della vita, ci insegna, come sempre, a non aver paura. Gesù accarezza debolezze e fragilità, ci infonde calma e ci fa scoprire che in realtà anche il deserto è un momento sacro, pur se impastato e intriso di contraddizioni. Bestie ed angeli convivono, qualcosa ci spaventa e qualcosa ci consola, qualcuno ci accarezza mentre un altro ci ferisce. È bello che l’evangelista Marco non ci parli delle tentazioni, quelle che invece ci vengono raccontate da Matteo e Luca. Forse a Dio non importa la forza che mettiamo nel vincere le nostre debolezze; Dio non ci vuole eroi che riescono in tutto, ma pienamente umani. Lui sa bene che ci sono bestie ed angeli che ci accompagnano e ci chiede, piuttosto, di riuscire a stare in loro compagnia senza farcene spaventare, integrarle nel nostro faticoso vivere, come l’albero che accetta l’arsura dell’estate e il gelo dell’inverno. Arreso ma fiducioso.
Vorremmo che tutto fosse perfetto e scorresse placidamente senza intoppi e interruzioni, senza stridii e lacerazioni e invece questo Vangelo ci indica la strada della comprensione, del saper tutto accogliere e benedire: grano e zizzania lasciati crescere insieme, cielo e terra che coincidono.
Posso fidarmi, posso affidarmi. Anche quando tutto mi sembra stonato sento il sapore della vita che mi stringe alla vita, per cantare nel vento che spinge, nello Spirito che mi conduce a scoprire l’armonia presente nelle dissonanze. Come un abbraccio che tutto raccoglie.
«Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia», scrive Ungaretti , E è il supplizio di tutti: spezzati, divisi, lacerati. Continua, il Vangelo, con le parole di Gesù: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino». Un “qui e ora” che interrompe le vuote attese, uno spazio e un tempo finalmente riempiti, un invito a scrutare nelle pieghe della vita perché lì, proprio lì, è imprigionata la luce. Basta guardare meglio: il paradiso trabocca dalla vita, granello di senape nascosto nell’attimo, pronto a crescere e farsi nido di nuovi germogli.
La zolla arida del nostro deserto sente e avverte il mistero della pioggia, si tende a riceverla, a farsi culla. «Ecco io faccio una cosa nuova, proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). E allora provo, come un fiore pestato nella notte, a fiorire come un arcobaleno. Provo a tornare povero come la natura e semplice come i cieli.
E sento nuovamente che la vita vera sta dietro a ciò che chiamiamo vita. Posso fidarmi, posso affidarmi. Il seme del regno è già qui, tra le mie mani tremanti, nel mio cuore incerto e dubbioso, ma qui. Ed è pronto a sbocciare.

Don Luigi Verdi

Dio vuole guarire tutti. Non rifiuta mai nessuno


Entra in scena un lebbroso, un disperato che ha perso tutto: casa, lavoro, amici, abbracci, dignità e perfino Dio. Quell'uomo che si sta decomponendo da vivo, per la società è un peccatore, rifiutato da Dio e castigato con la lebbra. Viene e si avvicina a Gesù, e non deve, non può, la legge gli impone la segregazione assoluta. Ma Gesù non scappa, non si scansa, non lo manda via, sta in piedi davanti a lui e ascolta. Il lebbroso avrebbe dovuto gridare da lontano, a chi incontrava: “immondo, contagioso”; invece da vicino, a tu per tu, sussurra: se vuoi puoi rendermi puro!

«Se vuoi». Il lebbroso naufrago si aggrappa a un “se”, è il suo “gancio in mezzo al cielo”, terra ferma dopo la palude. E mi pare di vedere Gesù vacillare davanti alla richiesta sommessa di questa creatura alla deriva. Vacillare, come chi ha ricevuto un colpo allo stomaco, un'unghiata sul cuore: «fu preso alle viscere da compassione».

«Se vuoi»... grande domanda: dimmi il cuore di Dio! Cosa vuole veramente per me? Vuole la lebbra? Che io sia l'immondizia del paese? È lui che manda il cancro?. Gesù vede, si ferma, si commuove e tocca. Da troppo tempo nessuno osava toccarlo, la sua carne moriva di solitudine. Gesù stende la mano e tocca l'intoccabile, contro ogni legge e ogni prudenza, lo tocca mentre è ancora contagioso; ed è così che inizia a guarirlo, con una carezza che arriva prima della voce, con dita più eloquenti delle parole. Toccare, esperienza di comunione, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), un comunicare la propria vicinanza, uno sfiorarsi, un brivido, un vibrare di Dio con me, di me con lui.

Poi, la risposta bellissima, la pietra d'angolo su cui poggia la nuova immagine di Dio: «voglio!» Un verbo totale, assoluto. Dio vuole, è coinvolto, gli importa, gli sta a cuore, patisce con me, urge in lui una passione per me, un patimento e un appassionarsi.

La seconda parola illumina la volontà di Dio: «sii purificato». Dio è intenzione di bene. Nessuno è rifiutato. Secondo la legge il lebbroso era escluso dal tempio, non poteva avvicinarsi a Dio finché non era puro. Invece quel giorno ecco il capovolgimento: avvicinati a Dio e sarai purificato. Accoglilo e sarai guarito.

E lo mandò via, con tono severo, ordinandogli di non dire niente. Ma il guarito non obbedisce: e si mise a proclamare il messaggio. L'escluso diventa fonte di stupore. Porta in giro la sua felicità, la sua esperienza felice di Dio. Chissà da quanti villaggi era dovuto scappare, e adesso è proprio nei villaggi che entra, cerca le persone da cui prima doveva fuggire, per dire che è cambiato tutto, perché è cambiata, con Gesù, l'immagine di Dio.

Padre Ermes Ronchi

Gesù apre le sue porte al dolore del mondo


È   il report di una giornata-tipo di Gesù, scandita dall’alternarsi di tre cose: annunciare, guarire, pregare. Cafarnao è il primo laboratorio del Regno, dove il mondo di Dio si misura con il mondo del dolore. Nella Bibbia il futuro inizia sempre, come qui, dalle paludi.
Marco inanella i tre ambiti preferiti del Maestro: la strada (Gesù si reca), la casa (di Simone), la folla. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Subito. Fa tenerezza questo preoccuparsi di Simone e Andrea delle loro vicende familiari e metterne a parte Gesù, come si fa con gli amici stretti. Tutto ciò che occupa il cuore dell’uomo entra nel rapporto con Dio. 
Egli si avvicinò. Il primo verbo bellissimo, rivelatore: Gesù non sopporta distanze e mostra il suo primo annuncio in atto: il regno si è fatto vicino ( Mc 1,15). Si avvicinò e la prese per mano. Potenza umile dei gesti: mano nella mano, una donna e Dio. Una mano è fatta per innalzarsi in un gesto di invocazione, per stringere altre mani in segno di amicizia o di aiuto, per accarezzare e per proteggere, per ricevere e per dare.
La prende e la solleva: toccare, arte della vicinanza, un parlare con il corpo, forza trasmessa a chi è stanco, fiducia per ogni figlio impaurito, carezza per chi è solo. Gesù la solleva, la fa “ri-sorgere”, la libera. Ed ella li serviva: il servizio è il test della vera guarigione per tutti. Il Vangelo usa lo stesso verbo nel racconto delle tentazioni, quando gli angeli si avvicinarono a Gesù e lo servivano. Una donna, la suocera di Simone, assimilata agli angeli, le creature più vicine a Dio, diventa la prima diaconessa del Vangelo.
Poi, dopo il tramonto del sole, finito il sabato con i suoi divieti (proibito anche visitare gli ammalati) tutto il dolore di Cafarnao si riversa alla porta della casa di Simone: la città intera era riunita davanti alla porta. Davanti a Gesù, in piedi sulla soglia, in piedi tra la casa e la strada, tra la casa e la città; davanti a Gesù che ama le porte aperte, che fanno entrare occhi e stelle, polline di parole e il rischio della vita; davanti alle porte aperte di Dio, s’addensa il dolore del mondo. La casa scoppia di folla e di dolore, e poi di vita ritrovata.
Queste guarigioni compiute dopo il tramonto, quando iniziava il nuovo giorno, sono il collaudo del mondo nuovo, raccontato sul ritmo della Genesi: “e fu sera e fu mattino”. Il miracolo è, nella sua bellezza giovane, l’inizio del primo giorno della vita guarita. Quando era ancora buio, uscì in un luogo segreto e là pregava. Gesù sa inventare spazi, quegli spazi segreti che danno salute all’anima, a tu per tu con Dio, a liberare le sorgenti della vita, così spesso insabbiate.

Padre Ermes Ronchi

Gesù, “felice rovina” di ciò che non è amore


Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, a Cafàrnao, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento (...). Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». (...)
Ed erano stupiti del suo insegnamento. Lo stupore: esperienza felice che ci sorprende e scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini, che ci fa entrare nella dimensione creativa della meraviglia che re-incanta la vita. La nostra capacità di provare gioia è direttamente proporzionale alla nostra capacità di meravigliarci. Salviamo allora lo stupore, la capacità di incantarci ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che trasmettono la sapienza del vivere, che toccano il nervo delle cose, perché nate dal silenzio, dal dolore, dal profondo, dalla vicinanza al Roveto di fuoco.
Gesù insegnava come uno che ha autorità. Autorevoli sono soltanto le parole che alimentano la vita e la portano avanti; Gesù ha autorità perché non è mai contro ma sempre in favore dell’umano. E qualcosa, dentro chi lo ascolta, lo avverte subito: è amico della vita. Autorevoli e vere sono soltanto le parole diventate carne e sangue, come in Gesù, in cui messaggio e messaggero coincidono. La sua persona è il messaggio.
L’autorità di Gesù è ribellione e liberazione da tutto ciò che fa male: C’era là un uomo posseduto da uno spirito impuro. Il primo sguardo di Gesù si posa sempre sulla sofferenza dell’uomo, vede che è un “posseduto”, prigioniero e ostaggio di uno più forte di lui. E Gesù interviene: non fa discorsi su Dio, non inanella spiegazioni sul male, si immerge nelle ferite di quell’uomo come liberatore, entra nelle strettoie, nelle paludi di quella vita ferita, e mostra che “il Vangelo non è una morale, ma una sconvolgente liberazione” (G. Vannucci).
Lui è il Dio il cui nome è gioia, libertà e pienezza (M. Marcolini) e si oppone a tutto ciò che è diminuzione d’umano. I demoni se ne accorgono: che c’è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci? Sì, Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l’uomo, a spezzare catene; a portare spada e fuoco, per separare e consumare tutto ciò che amore non è; a rovinare i desideri sbagliati da cui siamo “posseduti”: denaro, successo, potere, competizione invece di fratellanza. Ai desideri padroni dell’anima, Gesù dice due sole parole: taci, esci da lui. Taci, non parlare più al cuore dell’uomo, non sedurlo. Esci dalle costellazioni del suo cielo.
Un mondo sbagliato va in rovina: vanno in rovina le spade e diventano falci (Isaia), si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è un uomo libero e amante. Lo sarò anch’io, se il Vangelo diventerà per me passione e incanto, patimento e parto. Allora scoprirò “ Cristo, mia dolce rovina” (D.M. Turoldo), felice rovina di tutto ciò che amore non è.

Padre Ermes Ronchi

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