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Le bilance del Signore sono tarate solo sul bene


Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo. In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. (...) Una scena potente, drammatica, detta del “giudizio universale”, ma che in realtà è la rivelazione della verità ultima sull’uomo e sulla vita, su ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore. Perché il tempo dell’amore è più lungo del tempo della vita. La scena risponde a una domanda antica quanto l’uomo: cosa hai fatto di tuo fratello? La Parola offre in risposta sei opere ordinarie, poi apre una feritoia straordinaria: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me! Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da giungere a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, è corpo e carne di Dio. Il cielo che il Padre abita sono i suoi figli. E capisco che a Dio manca qualcosa: all’amore manca di essere amato. È lì nell’ultimo della fila, mendicante di pane e di casa per i suoi amati: li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, consolati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui. Davanti a questo Dio resto incantato, con lui mi sento al sicuro. E così farò anch’io, mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore. Mi è d’immenso conforto sentire che il tema del giudizio non sarà il male ma il bene; non peccati, debolezze, difetti, ma gesti buoni, briciole gentili. Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona di essa. In principio e nel profondo, non è il male che revoca il bene, è invece il bene che revoca il male delle nostre vite. Sulle bilance del Signore una spiga di buon grano pesa più di tutta la zizzania del campo. Gesù mostra così che il “giudizio” è divinamente truccato, è chiaramente parziale, perché sono ammesse sole le prove a discarico. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (Giovanni della Croce), non su colpe o pratiche religiose, ma sul laico, umanissimo addossarci il dolore dell’uomo. La via cristiana non si riduce però a compiere delle buone azioni, deve restare scandalosa, più alta, provocatoria, ripetere che il povero è casa di Dio! Un Dio innamorato che canta per ogni figlio il canto esultante di Adamo per la sua donna: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”. Poi ci sono anche quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati o derisi, semplicemente non hanno fatto niente. Omissione di fraternità. Isolamento da paura perché “l’inferno sono gli altri” (J.P. Sartre). Invece no, il vangelo risponde: “mai senza l’altro”. Il Signore non guarderà a me, guarderà attorno a me, a quelli di cui mi son preso cura. Senza, non c’è paradiso.

Padre Ermes Ronchi

Il Signore ci invita a entrare nella gioia


 C' è un signore orientale, ricchissimo e generoso, che parte in viaggio e affida il suo patrimonio ai servi. Non cerca un consulente finanziario, chiama i suoi di casa, si affida alle loro capacità, crede in loro, ha fede e un progetto, quello di farli salire di condizione: da dipendenti a con-partecipi, da servi a figli. Con due ci riesce. Con il terzo non ce la fa. Al momento del ritorno e del rendiconto, la sorpresa raddoppia: Bene, servo buono! Bene! Eco del grido gioioso della Genesi, quando per sei volte, «vide ciò che aveva fatto ed esclamò: che bello!». E la settima volta: ma è bellissimo! I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: ti darò potere su molto, entra nella gioia del tuo signore. In una dimensione nuova, quella di chi partecipa alla energia della creazione, e là dove è passato rimane dietro di lui più vita.

L'ho sentito anch'io questo invito: «entra nella gioia». Quando, scrivendo o predicando il Vangelo, il lampeggiare di uno stupore improvviso, di un brivido nell'anima, l'esperienza di essere incantato io per primo da una grande bellezza, mi faceva star bene, io per primo. Oppure quando ho potuto consegnare a qualcuno una boccata d'ossigeno o di pane, ho sentito che ero io a respirare meglio, più libero, più a fondo. «Sii egoista, fai del bene! Lo farai prima di tutto a te stesso».

E poi è il turno del terzo servo, quello che ha paura. La prima di tutte le paure, la madre di tutte, è la paura di Dio: so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso...ho avuto paura. Questa immagine distorta di un Dio duro, che ti sta addosso, il fiato sul collo, è lontanissima dal Dio di Gesù. E sotto l'effetto di questa immagine sbagliata, la vita diventa sbagliata, il luogo di un esame temuto, di una mietitura che incombe. Se nutri quell'idolo, se credi a un Dio padrone duro e spietato, allora lo incontrerai come maschera delle tue paure, come fantasma maligno; e il dono diventa, come per il terzo servo, un incubo: ecco ciò che è tuo, prendilo. Se credi a un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti, ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con lui la vita.

Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, del granello di senape, del bocciolo, di talenti da far fruttare, di inizi piccoli e potenti. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Siamo tutti sacerdoti di quella che è la liturgia primordiale del mondo. Dio è la primavera del cosmo, a noi di esserne l'estate profumata di frutti.

Padre Ermes Ronchi

Qualcuno ci attende in fondo a ogni notte

Nessuno dei protagonisti della parabola fa una bella figura: lo sposo con il suo ritardo esagerato mette in crisi tutte le ragazze; le cinque stolte non hanno pensato a un po' d'olio di riserva; le sagge si rifiutano di aiutare le compagne; il padrone chiude la porta di casa, cosa che non si faceva, perché tutto il paese partecipava alle nozze, entrava e usciva dalla casa in festa. Eppure è bello questo racconto, mi piace l'affermazione che il Regno di Dio è simile a dieci ragazze che sfidano la notte, armate solo di un po' di luce. Di quasi niente. Per andare incontro a qualcuno. Il Regno dei cieli, il mondo come Dio lo sogna, è simile a chi va incontro, è simile a dieci piccole luci nella notte, a gente coraggiosa che si mette per strada e osa sfidare il buio e il ritardo del sogno; e che ha l'attesa nel cuore, perché aspetta qualcuno, «uno sposo», un po' d'amore dalla vita, lo splendore di un abbraccio in fondo alla notte. Ci crede. Ma qui cominciano i problemi. Tutte si addormentarono, le stolte e le sagge. Perché la fatica del vivere, la fatica di bucare le notti, ci ha portato tutti a momenti di abbandono, a sonnolenza, forse a mollare. La parabola allora ci conforta: verrà sempre una voce a risvegliarci, Dio è un risvegliatore di vite. Non importa se ti addormenti, se sei stanco, se l'attesa è lunga e la fede sembra appassire. Verrà una voce, verrà nel colmo della notte, proprio quando ti parrà di non farcela più, e allora «non temere, perché sarà Lui a varcare l'abisso» (D.M. Turoldo). Il punto di svolta del racconto non è la veglia mancata (si addormentano tutte, tutte ugualmente stanche) ma l'olio delle lampade che finisce. Alla fine la parabola è tutta in questa alternativa: una vita spenta, una vita accesa. Tuttavia lo scatto in alto, l'inatteso del racconto è quella voce nel buio della mezzanotte, capace di risvegliare alla vita. Io non sono la forza della mia volontà, non sono la mia capacità di resistere al sonno, io ho tanta forza quanta ne ha quella Voce, che, anche se tarda, di certo verrà, a ridestare la vita da tutti gli sconforti, a consolarmi dicendo che di me non è stanca, a disegnare un mondo colmo di incontri e di luci. A me serve un piccolo vaso d'olio. Il Vangelo non dice in che cosa consista quell'olio misterioso. Forse è quell'ansia, quel coraggio che mi porta fuori, incontro agli altri, anche se è notte. La voglia di varcare distanze, rompere solitudini, inventare comunioni. E di credere alla festa: perché dal momento che mi mette in vita Dio mi invita alle nozze con lui. Il Regno è un olio di festa: credere che in fondo ad ogni notte ti attende un abbraccio.

Padre Ermes Ronchi

Gesù ricorda: il più grande è colui che serve

La  Parola di Dio mi mette con le spalle al muro: sono anch'io, come scriba o fariseo, uno che dice ma non fa? Cristiano di sostanza oppure di facciata? Una “domanda del cuore”, di quelle che fanno vivere: sono uno falso che non è ciò che dice e non dice ciò che è, oppure persona vera, compiuta, in cui annuncio e annunciatore coincidono? Ci sono colpi duri, oggi, nelle parole di Gesù; ma ogni volta che ciò accade lo scopo non è ferire, ma spezzare la conchiglia affinché appaia la perla. La conchiglia non è la fragilità, ma l'ipocrisia. Nel Vangelo Gesù non sopporta due categorie di persone: gli ipocriti e quelli dal cuore duro, due tipi umani che spesso si identificano. Legano pesi enormi sulle spalle delle persone, ma loro non li toccano con un dito. Ipocrita è il moralista che impone leggi rigide, ma solo agli altri, e più è severo con loro più si sente vicino a Dio! Gesù è rigoroso, ma mai rigido.

Paolo oggi nella seconda lettura: «Avrei voluto darvi la mia vita» (1Ts 2,8). L'ipocrita invece dice: «Vi ho dato la legge, sono a posto». Sono funzionari delle regole e analfabeti del cuore. E perfino analfabeti di Dio. Cioè, nel loro intimo, sono strutturalmente atei. Ipocrita è termine greco che significa attore, il teatrante che recita una parte e indossa una maschera: tutte le opere le fanno per essere ammirati dalla gente, si compiacciono dei primi posti, dei saluti sulle piazze, degli applausi...

Ma il cuore è assente, il cuore è altrove. Fanno finta: sono personaggi e non più persone. E questa è la peggior sventura che possa capitare, la dissociazione dell'anima, lo sdoppiamento della persona, quando ami ciò che va dalla pelle in fuori (l'apparenza e il superfluo) e non ti curi di ciò che va dalla pelle in dentro (la sostanza e l'essenziale). Sono così rare le persone autentiche, tutte d'un pezzo, quelle che sono se stesse in pubblico come in privato, senza maschere. Quando ne incontriamo una, non lasciamola andare via senza aver tentato di farcela amica. È tra quelli che aprono una fessura sulla verità, una feritoia su Dio. Gesù poi evidenzia un altro errore che sgretola e avvelena dal di dentro la vita: l'amore del potere. Non fatevi chiamare maestro, o dottore, o padre, come se foste superiori agli altri.

Voi siete tutti fratelli. Ma noi siamo sempre impreparati ad essere fratelli e sorelle. La fraternità ha fatto naufragio nella storia umana, è trauma e sogno, sempre ferita, sempre minacciata, sempre a rischio. Eppure disegna un mondo buono che si regge su legami d'affetto gioioso, dove il più grande è colui che serve. Perché un mondo fondato sul concetto di potere e di nemico, non è una civiltà, ma una barbarie.

Padre Ermes Ronchi

È «amore» la parola chiave del Vangelo


Ma  estro, qual è il comandamento grande? Il comandamento-sorgente, la parola-fonte, la legge che unifica e dà senso alle altre, così che possiamo anche noi semplificare la vita, andare diritti all'essenziale? Domanda seria, alla quale Gesù risponde ma, come al suo solito, liberando dagli schemi, proponendo una parola che tra le Dieci Parole non c'è. Comincia con un verbo: amerai, al futuro, a indicare che l'amore è il futuro del mondo, che senza amore non c'è futuro: amatevi, altrimenti vi distruggerete. È tutto qui il Vangelo. Tu amerai, per guarire la vita e farla felice, perché la bilancia su cui si pesa la beatitudine di questa vita è dare e ricevere amore.

Non amare è solo un lento morire. Lentamente muore chi non ama, chi non trema per una persona, di quell'amore che ripulisce gli occhi, che “fa vedere le persone come le vede la divinità, che muove il sole e le altre stelle e muove tutto in noi” (M. Gualtieri), che scava pietre per costruire case, cha fa nascere abbracci per ritrovarci interi, che fa sorgere arcobaleni che indicano la via. Amerai Dio con tutto il cuore. Qualcuno ha proposto un'altra traduzione: amerai Dio con tutti i tuoi cuori. Come a dire: con il tuo cuore di luce e anche con il cuore d'ombra; con il cuore che crede e anche con il cuore che dubita; quando splende il sole e quando si fa buio; a occhi chiusi quando hai un po' paura, e perfino con le lacrime. Lo amerai come puoi, meglio che puoi, con ciò che hai, magari col fiatone. Ma con tutta la tua anima, cioè con tutta intera la tua vita. Con tutta la tua mente.

Amore intelligente dev'essere; quindi conoscilo, leggi, parlane, vai a fondo. Scrivi una preghiera, una canzone, una poesia d'amore al tuo Amore... Amerai con tutto. Se fai entrare una persona nella tua vita, non puoi essere avaro di te, sarai generoso di sentimenti buoni. Ma con questo, cosa ha detto di nuovo Gesù? In fondo sono le parole che ripetono i mistici, i cercatori di Dio di tutte le religioni. La novità di Gesù sta nell'aggiunta di un secondo comandamento, che è simile al primo... Il genio del cristianesimo: “amerai l'uomo” è simile a “amerai Dio”. Il prossimo è simile a Dio. Il prossimo ha volto e voce, ha cuore e bellezza, simili a Dio. La terra risponde al cielo. Vangelo strabico, verrebbe da dire: un occhio in alto, uno in basso, testa nel cielo e piedi per terra.

La grandezza della vita ha a che fare con l'amore. Dio ha a che fare con l'amore. E Gesù è venuto a prendersene cura, come guaritore del disamore del mondo. Il disamore è l'unico peccato che rende deserta la terra e impensabile il domani. Venuto per guarire il cuore. E che diventi la culla del futuro e la culla di Dio.

Padre Ermes Ronchi

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