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Noi tralci, Lui la vite: siamo della stessa pianta di Cristo

Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio: io e lui la stessa cosa! Stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Lui in me e io in lui, come figlio nella madre.

E il mio padre è il vignaiolo: Dio raccontato con le parole semplici della vita e del lavoro. Un Dio che mi lavora, si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma le cesoie, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. Per farmi portare sempre più frutto.

E poi una novità assoluta: mentre nei profeti e nei salmi del Primo Testamento, Dio era descritto come il padrone della vigna, contadino operoso, vendemmiatore attento, tutt'altra cosa rispetto alle viti, ora Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io sono la vite, voi siete i tralci. Facciamo parte della stessa pianta, come le scintille nel fuoco, come una goccia nell'acqua, come il respiro nell'aria.

Con l'Incarnazione di Gesù, Dio che si innesta nell'umanità e in me, è accaduta una cosa straordinaria: il vignaiolo si è fatto vite, il seminatore seme, il vasaio si è fatto argilla, il Creatore creatura.

La vite-Gesù spinge la linfa in tutti i miei tralci e fa circolare forza divina per ogni mia fibra. Succhio da lui vita dolcissima e forte.

Dio che mi sei intimo, che mi scorri dentro, tu mi vuoi sempre più vivo e più fecondo di gesti d'amore... Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte?

Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, inviare mali o sofferenze, bensì dare forza, qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Questo vuole per me il Dio vignaiolo: «Portare frutto è simbolo del possedere la vita divina» (Brown). Dio opera per l'incremento, per l'intensificazione di tutto ciò che di più bello e promettente abita in noi.

Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all'ultima gemma. Noi portiamo un tesoro nei nostri vasi d'argilla, un tesoro divino: c'è un amore che sale lungo i ceppi di tutte le vigne, di tutte le esistenze, un amore che sale in me e irrora ogni fibra. E l'ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l'ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire.

Se noi sapessimo quale energia c'è nella creatura umana! Abbiamo dentro una vita che viene da prima di noi e va oltre noi. Viene da Dio, radice del vivere, che ripete a ogni piccolo tralcio: Ho bisogno di te per grappoli profumati e dolci; di te per una vendemmia di sole e di miele.

Padre Ermes Ronchi

Gesù il pastore buono che dà la vita,che contagia d'amore

Pastore buono: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha in sé nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge.

Il pastore buono che nella visione del profeta «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Isaia 40,11), evoca anche una dimensione tenera e materna che, unita alla fortezza, compone quella che papa Francesco chiama con un magnifico ossimoro, una «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium 88).

Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza.

Qual è il comportamento, il gesto che caratterizza questo pastore secondo il cuore di Dio? Il Vangelo di oggi lo sottolinea per cinque volte, racchiudendolo in queste parole: il pastore dà la vita. Qui affiora il filo d'oro che lega insieme tutta intera l'opera ininterrotta di Dio nei confronti di ogni creatura: il suo lavoro è da sempre e per sempre trasmettere vita, «far vivere e santificare l'universo» (Prece eucaristica III).

Dare la vita non è, innanzitutto o solamente, morire sulla croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince.

Dare la vita è l'opera generativa di Dio, un Dio inteso al modo delle madri, uno che nel suo intimo non è autoreferenzialità, ma generazione..

Un Dio compreso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del seno di donna che offre vita al piccolo; dell'acqua che dà vita alla steppa arida. Io offro la mia vita significa: vi offro una energia di nascita dall'alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me (noi saremo simili a lui, 1 Gv 3,2 nella II Lettura)

Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i tanti lupi di oggi.

Perché anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di "pastore buono", cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano.

"Dare vita" significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.

Padre Ermes Ronchi

Testimoni del Risorto

Tre sono gli aspetti che vengono coinvolti dalla venuta del Signore risorto: uno intellettuale (“aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture”), uno affettivo (“per la grande gioia”) e uno operativo (“Di questo voi siete miei testimoni”). Sono tre aspetti essenziali della fede, perché Gesù non resti un “fantasma”, un essere evanescente, ma diventi, per ciascuno di noi, un commensale, un compagno di viaggio. L’aspetto intellettuale anzitutto: nel nostro mondo iper-specializzato, in cui sono necessari vent’anni di studio per ottenere una qualifica, lasciamo la fede nel mondo dell’approssimativo e dell'infantile. Quante cene ho passato discutendo con adulti che mi parlavano di fede con tre cognizioni imparate al catechismo delle elementari! Quanti sensi di inferiorità ho visto in cristiani incapaci di rendere conto della speranza che è in loro! Il Signore ci apre la mente all’intelligenza delle Scritture: dedichiamo tempo a leggere e capire la Parola, a renderla viva nella nostra vita. Questa lettera d’amore che è la Bibbia troppo spesso giace impolverata nel fondo dei ripiani delle nostre librerie! Abbiamo il coraggio dell’ascolto, del capire, come i discepoli di Emmaus che in quel crepuscolo ricevettero da Cristo stesso la spiegazione delle Scritture. Un secondo aspetto viene coinvolto dalla presenza del Cristo: quello affettivo; i discepoli provano una grande gioia, quasi un turbamento, nel vedere il Signore. Ne stiamo parlando molto in questi giorni: la fede non può rimanere su di un piano di adesione esteriore (“conosco” la fede) ma deve necessariamente coinvolgere il nostro cuore, i nostri affetti. Finché non saremo conquistati dalla bellezza e dalla gioia che scaturisce dalla presenza del Cristo, non potremo veramente dirci cristiani. Infine l’aspetto della testimonianza, della concretezza, del contagio: la fede diventa testimonianza. Attenti: niente crociate con il crocifisso in mano, per carità, ma la capacità di rendere ragione del nostro comportamento. Il Signore è venuto per portarci la pace interiore, il perdono che è la profonda riconciliazione con noi stessi e con gli altri. Lasciamoci raggiungere senza paura: il Signore ancora oggi ci ripete: “sono proprio io!”

Tu sei vivo in mezzo a noi, Signore, e ci doni la pace perché anche noi la portiamo al mondo. A te onore e gloria, Signore Gesù vivente nei secoli!

Paolo Curtaz

Credere senza aver visto

È la domenica di Tommaso e di una beatitudine che sento mia: Beati quelli che non hanno visto eppure credono! Le altre le ho sentite difficili, cose per pochi coraggiosi, per pochi affamati di immenso. Questa è una beatitudine per tutti, per chi fa fatica, per chi cerca a tentoni, per chi non vede, per chi ricomincia. Siamo noi quelli di cui parla Gesù, noi che non abbiamo visto eppure di otto giorni in otto giorni continuiamo a radunarci nel suo nome, a distanza di millenni e a prossimità di cuore; di noi scrive Pietro: «voi lo amate pur senza averlo visto». Otto giorni dopo venne Gesù, a porte chiuse. C’è aria di paura in quella casa, paura dei Giudei, ma soprattutto paura di se stessi, di come lo avevano abbandonato, tradito, rinnegato così in fretta. Mi conforta pensare che, se anche trova chiuso, non se ne va. Otto giorni dopo è ancora lì: l’abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare.

Viene e sta in mezzo a loro. Non chiede di essere celebrato, adorato. Non viene per ricevere, ma per dare. È il suo stile inconfondibile. Sono due le cose che porta: la pace e lo Spirito.

Pace a voi. Non un semplice augurio o una promessa futura, ma una affermazione: la pace è a voi, vi appartiene, è già dentro di voi, è un sogno iniziato e che non si fermerà più. Io vi porto questo shalom che è pienezza di vita. Non una vita più facile, bensì più piena e appassionata, ferita e vibrante, ferita e luminosa, piagata e guaritrice. La pace adesso.

Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse: ecco io vi mando!

Scende lo Spirito di Gesù, il suo segreto, il suo mistero, ciò che lo fa vivere, il suo respiro stesso: vivrete di ciò di cui vivo io. Lo ha sperimentato Paolo: non son più io che vivo, è Cristo che vive in me. Lo ha comunicato a tutti: Voi siete già stati risuscitati con Cristo (Col 3,1). Già risorti adesso, per un’eternità che già mette le sue prime gemme. In quel soffio Gesù trasmette la sua forza: con lo Spirito di Dio voi farete le cose di Dio. E la prima delle cose da Dio è il perdono.

Tommaso, metti qua il tuo dito nel foro dei chiodi, stendi la mano, tocca! Le ferite del Risorto, feritoie d’amore: nel corpo del crocifisso l’amore ha scritto il suo racconto con l’alfabeto delle ferite, indelebili ormai come lo è l’amore.

Gesù che non si scandalizza dei miei dubbi, ma mi tende le sue mani. A Tommaso basta questo gesto. Non è scritto che abbia toccato. Perché Colui che ti tende la mano, che non ti giudica ma ti incoraggia, è Gesù. Non ti puoi sbagliare!

padre Ermes Ronchi

Guardare la croce con gli occhi del centurione

Gesù entra a Gerusalemme, non solo un evento storico, ma una parabola in azione. Di più: una trappola d'amore perché la città lo accolga, perché io lo accolga. Dio corteggia la sua città, in molti modi. Viene come un re bisognoso, così povero da non possedere neanche la più povera bestia da soma. Un Dio umile che non si impone, non schiaccia, non fa paura. «A un Dio umile non ci si abitua mai» (papa Francesco).

Il Signore ha bisogno dell’asino, ma lo rimanderà qui subito. Ha bisogno di quel puledro d'asino, di me, ma non mi ruberà la vita; la libera, invece, e la fa diventare il meglio di ciò che può diventare. Aprirà in me spazi al volo e al sogno.

E allora: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. È straordinario poter dire: Dio viene. In questo paese, per queste strade, in ogni casa che sa di pane e di abbracci, Dio viene, eternamente incamminato, viaggiatore dei millenni e dei cuori. E non sta lontano.

La Settimana Santa dispiega, a uno a uno, i giorni del nostro destino; ci vengono incontro lentamente, ognuno generoso di segni, di simboli, di luce. La cosa più bella da fare per viverli bene è stare accanto alla santità profondissima delle lacrime, presso le infinite croci del mondo dove Cristo è ancora crocifisso nei suoi fratelli. Stare accanto, con un gesto di cura, una battaglia per la giustizia, una speranza silenziosa e testarda come il battito del cuore, una lacrima raccolta da un volto.

Gesù entra nella morte perché là è risucchiato ogni figlio della terra. Sale sulla croce per essere con me e come me, perché io possa essere con lui e come lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel suo amore, deve all'uomo che è in croce. Perché l'amore conosce molti doveri, ma il primo è di essere con l'amato, stringersi a lui, stringerlo in sé, per poi trascinarlo in alto, fuori dalla morte.

Solo la croce toglie ogni dubbio. Qualsiasi altro gesto ci avrebbe confermato in una falsa idea di Dio. La croce è l'abisso dove un amore eterno penetra nel tempo come una goccia di fuoco, e divampa. L'ha capito per primo un pagano, un centurione esperto di morte: costui era figlio di Dio. Che cosa l'ha conquistato? Non ci sono miracoli, non risurrezioni, solo un uomo appeso nudo nel vento. Ha visto il capovolgimento del mondo, dove la vittoria è sempre stata del più forte, del più armato, del più spietato. Ha visto il supremo potere di Dio che è quello di dare la vita anche a chi dà la morte; il potere di servire non di asservire; di vincere la violenza, ma prendendola su di sé.

a visto, sulla collina, che questo mondo porta un altro mondo nel grembo. E il Crocifisso ne possiede la chiave.

padre Ermes Ronchi

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