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Il dramma di mettere Dio contro l'uomo

Un uomo nato cieco, così povero che possiede soltanto se stesso. E Gesù si ferma proprio per lui. Arriva la prima domanda: perché cieco? Chi ha peccato? Lui o i suoi genitori? Gesù ci allontana immediatamente dall'idea che il peccato sia la spiegazione del male, la chiave di volta della religione.

La bibbia non dà risposte al perché del male innocente, le cerchi invano. Neppure Gesù lo spiega. Fa altro: lui libera dal male, si commuove, si avvicina, tocca, abbraccia, fa rialzare. Il dolore più che spiegazione vuole condivisione. Gesù spalma un petalo di fango sulle palpebre del cieco, lo manda alla piscina di Siloe, torna che ci vede: uomo finalmente dato alla luce. Nella nostra lingua partorire si dice anche “dare alla luce”. Gesù dà alla luce, partorisce vita piena. Il filo rosso del racconto è una seconda domanda, incalzante, ripetuta sette volte: come ti si sono aperti gli occhi? Tutti vogliono sapere “come” si fa, “come” ci si impadronisce del segreto di occhi nuovi e migliori, tutti sentono di avere occhi incompiuti.

Lo sappiamo: basta una lacrima e non vedi più. Quanti occhi acutissimi ho visto spegnersi: dicevano di vederci bene ed è bastata una lacrima, l'unghiata di un dolore, e si sono annebbiati, gli orizzonti e le strade scomparsi. Di fronte alla gioia dell'uomo “dato alla luce”, che vede per la prima volta il sole, il blu del cielo e gli occhi di sua madre, anche gli alberi, se potessero, danzerebbero; anche i fiumi batterebbero le mani, dice il salmo. I farisei, no. Non vedono il cieco illuminato ma solo un articolo violato: Niente miracoli di sabato. Non si salvano vite, oggi. C'è il riposo santo. Avete sei giorni per farvi guarire, non di sabato. Di sabato Dio vi vuole ciechi! Ma che religione è mai quella che non guarda al bene dell'uomo, ma che parla solo di se stessa, a se stessa? Una fede che non si interessi dell'umano non merita che ad essa ci dedichiamo (Bonhoeffer).

C'è un'infinita tristezza nella pagina. I farisei mettono Dio contro l'uomo, ed è il peggior dramma che possa capitare alla nostra fede, a tutte le fedi: mostrano che è possibile essere credenti, senza essere buoni; credenti e duri di cuore. È facile ed è mortale. E invece no, gloria di Dio non è il sabato osservato, ma un mendicante che si alza, che torna a vita piena, “uomo finalmente promosso a uomo” (P. Mazzolari).

E il suo sguardo che illumina il mondo dà gioia a Dio più di tutti i comandamenti osservati. Come lui, torniamo ad avere occhi di bambini, di figli amati: occhi aperti, occhi meravigliabili, occhi grati e fiduciosi, occhi speranzosi, occhi che ridono o piangono con chi sta loro davanti; occhi, insomma, contagiati di cielo. Signore metti luce nei miei pensieri, luce nelle mie parole, luce nel mio cuore.

Padre Ermes Ronchi

Dio non può dare nulla che sia meno di se stesso

Dio ha sete, ma non di acqua, bensì della nostra sete di lui, ha desiderio che abbiamo desiderio di lui. Lo Sposo ha sete di essere amato. La donna non comprende, e obietta: giudei e samaritani sono nemici, perché dovrei darti acqua? E Gesù replica, una risposta piena di immaginazione e di forza: se tu conoscessi il dono di Dio. Parola chiave della storia sacra: Dio non chiede, dona; non pretende, offre.

Il maestro del cuore mostra che c'è un metodo, uno soltanto per raggiungere il santuario profondo di una persona. Non è il rimprovero o la critica, non il verdetto o il codice, ma far gustare qualcosa di più, un di più di bellezza, di vita, di gioia, un'acqua migliore. E aggiunge: ti darò un'acqua che diventa in te sorgente che zampilla vita.

Gesù, il poeta di Nazaret, usa qui il linguaggio bello delle metafore che sanno parlare all'esperienza di tutti: acqua, viva, sorgente. Lo sai, donna della brocca, la sorgente è più dell'acqua per la tua sete, è senza misura, senza calcolo, senza sforzo, senza fine, fiorisce nella gratuità e nell'eccedenza, dilaga oltre te e non fa distinzioni, scorre verso ogni bocca assetata. Cos'è quella sorgente, chi è, se non Dio stesso? Lo immaginava così Carlo Molari: «Dio è una sorgente di vita a cui puoi sempre attingere, disponibile ad ogni momento, che non viene mai meno, che non inganna, che come il respiro non puoi trattenere per te solo. Ma non chiuderti, o la sua acqua passerà oltre te...». Se tu conoscessi il dono di Dio...

Dio non può dare nulla di meno di se stesso (M. Eckart), il dono di Dio è Dio stesso che si dona. Ti darò un'acqua che diventa sorgente, vuol dire metterò Dio dentro di te, fresco e vivo, limpidezza e fecondità delle vite, farò nascere in te il canto di una sorgente eterna. Il dono è il fulcro della storia tra i due, al muretto del pozzo: non una brocca più grande, non un pozzo più profondo, ma molto di più: lei, che con tanti amori era rimasta nel deserto dell'amore, ricondotta alla sua sorgente, al pozzo vivo. Vai a chiamare tuo marito, l'uomo che ami. Gesù va diritto al centro, ma non punta il dito sui cinque matrimoni spezzati, non pretende che ora si regolarizzi, prima del dono.

Il Maestro con suprema delicatezza non rovista nel passato, fra i cocci di una vita, ma cerca il bene, il frammento d'oro, e lo mette in luce per due volte: hai detto bene, hai detto il vero. La samaritana è donna verace. Quel Dio in cui sono tutte le nostre sorgenti non cerca eroi ma uomini veri. Mi chiedi dove adorare Dio, su quale monte? Ma sei tu il monte! Tu il tempio. Là dove sei vero, ogni volta che lo sei, il Padre è con te, sorgente che non si spegne mai.

Padre Ermes Ronchi

Siamo tutti mendicanti di luce. Come Pietro

La Quaresima, quel tempo che diresti sotto il segno della penitenza, ci spiazza subito con un Vangelo pieno di sole e di luce. Dai 40 giorni del deserto di sabbia, al monte della trasfigurazione; dall'arsura gialla, ai volti vestiti di sole. La Quaresima ha il passo delle stagioni, inizia in inverno e termina in primavera, quando la vita intera mostra la sua verità profonda, che un poeta esprime così:

«Tu sei per me ciò ch'è la primavera per i fiori» (G. Centore). «Verità è la fioritura dell'essere» (R. Guardini). «Il Regno dei cieli verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci).

Il percorso della realtà è come quello dello spirito: un crescere della vita. Gesù prende con sé i tre discepoli più attenti, chiama di nuovo i primi chiamati, e li conduce sopra un alto monte, in disparte. Geografia santa: li conduce in alto, là dove la terra s'innalza nella luce, dove l'azzurro trascolora dolcemente nella neve, dove nascono le acque che fecondano la terra. «E si trasfigurò davanti ai loro occhi». Nessun dettaglio è riferito se non quello delle vesti di Gesù diventate splendenti. La luce è così eccessiva che non si limita al corpo, ma dilaga verso l'esterno, cattura la materia degli abiti e la trasfigura. Le vesti e il volto di Gesù sono la scrittura, anzi la calligrafia del cuore. L'entusiasmo di Pietro, quella esclamazione stupita: che bello qui! Ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello» gridato a pieno cuore. Il compito più urgente dei cristiani è ridipingere l'icona di Dio: sentire e raccontare un Dio luminoso, solare, ricco non di troni e di poteri, ma il cui tabernacolo più vero è la luminosità di un volto; un Dio finalmente bello, come sul Tabor. Ma a noi non interessa un Dio che illumini solo se stesso e non illumini l'uomo, «non ci interessa un divino che non faccia fiorire l'umano. Un Dio cui non corrisponda la fioritura dell'umano, il rigoglio della vita, non merita che a Lui ci dedichiamo» (D. Bonhoeffer).

Come Pietro, siamo tutti mendicanti di luce. Vogliamo vedere il mondo in altra luce, venire davvero alla luce, perché noi nasciamo a metà, e tutta la vita ci serve per nascere del tutto. Viene una nube, e dalla nube una Voce, che indica il primo passo: ascoltate lui! Il Dio che non ha volto, ha invece una voce. Gesù è la Voce diventata Volto e corpo. Il suo occhi e le sue mani sono il visibile parlare di Dio.

Come il Signore Gesù abbiamo dentro non un cuore di tenebra ma un seme di luce. La via cristiana altro non è che la fatica gioiosa di liberare tutta la luce e la bellezza seminate in noi.

Padre Ermes Ronchi

Un angelo nel cielo delle nostre metropoli

Come in una parabola dei nostri giorni, provo a immaginare il vangelo delle tentazioni nella città che conosco meglio: Milano. Il diavolo portò Gesù nella metropoli, capitale della finanza e della moda. Lo pose in alto, sopra la guglia centrale del Duomo, e gli mostrò la città ai suoi piedi: il Castello, la Borsa, la cintura delle banche, lo stadio, le vie della moda. E c’era folla sul corso, turisti e polizia. Qualcuno dei mendicanti stringeva un cagnolino in grembo, forse per un po’ di calore, forse per attivare un briciolo di pietà. Sull’asfalto grigio, coriandoli e stelle filanti di carnevale, e la pioggia leggera di fine inverno. Qualcuno, occhi tristi e pelle scura, vendeva le ultime rose ai passanti . Guardando bene si vedevano anche quelli che si lasciavano andare: alla solitudine, alla vecchiaia, alla depressione, che si lasciavano morire di droga o di dolore. Allora il diavolo disse a Gesù: “Tutto questo è mio! Tutto sarà tuo se ti inginocchi davanti a me!”. Signore, perché non gli hai dato del bugiardo? Dicendogli, e dicendo a noi, che non è vero, che non tutto è suo, che la città non è il suo regno, che ci sono giusti e bambini e innamorati e poeti. Lascia che ti mostri una cosa, Signore, proprio a Te che non hai reagito. Nella città, che il Nemico dice sua, ci sono luoghi dove per tutto il giorno si asciugano lacrime, dove donne e uomini intercedono per la città, la collegano al cielo, e altri che provano a fare del loro poco qualcosa che serva a qualcuno. Ci sono madri che danno la vita per i figli e gente onesta perfino nelle piccole cose; ci sono padri che trasmettono rettitudine ai figli e occhi diritti. C’è il grido del male, lo sento forte, e mi stordisce a giorni, ma più ancora c’è il silenzioso lievitare del bene. Signore, se guardi bene nella città che il diavolo dice sua, non c’è solo competizione, puoi incontrare la passione per la giustizia, il sottovoce dell’onestà, gente limpida senza secondi fini. E se vieni ancora un po’ più vicino, puoi incontrare anche me, perché ci sono anch’io e sono tra quelli che credono ancora nell’amore, e non si consultano con le loro paure ma con i sogni. Buttati, ti ha detto, verranno gli angeli a portarti sulle mani! Io lo so che verranno, quando con l’ultimo, con il più grande atto di fede, mi butterò in Te nel giorno della mia morte, fidandomi. Se c’è un angelo nel cielo sopra Milano, chiedo che mi accompagni nell’ultimo viaggio, tenendomi per mano, perché ho un po’ paura, e mi dica in quell’ultimo tratto di cielo solo questo: “Vieni, hai tentato di amare, il tuo desiderio di amore era già amore”! Non chiedo altro, ma che lo dica con un sorriso

Padre Ermes Ronchi

Porgere l'altra guancia è un atto per disarmare

Da tre domeniche camminiamo sui crinali da vertigine del discorso della montagna. Vangeli davanti ai quali non sappiamo bene come stare: se tentare di edulcorarli, oppure relegarli nel repertorio delle pie illusioni. Ci soccorre un elenco di situazioni molto concrete che Gesù mette in fila: schiaffo, tunica, miglio, denaro in prestito. E le soluzioni che propone, in perfetta sintonia: l'altra guancia, il mantello, due miglia. Molto semplice, niente che un bambino non possa capire, nessuna teoria complicata, solo gesti quotidiani, una santità che sa di abiti, di strade, di gesti, di polvere. “Gesù parla della vita con le parole proprie della vita” (C. Bobin).

Fu detto occhio per occhio. Ma io vi dico: Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l'altra. Quello che Gesù propone non è la sottomissione dei paurosi, ma una presa di posizione coraggiosa: “tu porgi”, fai tu il primo passo, tocca a te ricominciare la relazione, rammendando tenacemente il tessuto dei legami continuamente lacerato. Sono i gesti di Gesù che spiegano le sue parole: quando riceve uno schiaffo nella notte della prigionia, Gesù non risponde porgendo l'altra guancia, ma chiede ragione alla guardia: se ho parlato male dimostramelo. Lo vediamo indignarsi, e quante volte, per un'ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per le maschere e il cuore di pietra dei pii e dei devoti. E collocarsi così dentro la tradizione profetica dell'ira sacra. Non ci chiede di essere lo zerbino della storia, ma di inventarsi qualcosa - un gesto, una parola - che possa disarmare e disarmarci. Di scegliere, liberamente, di non far proliferare il male, attraverso il perdono “che strappa dai circoli viziosi, spezza la coazione a ripetere su altri ciò che hai subito, strappa la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell'odio” (Hanna Arendt).

Perché noi siamo più della storia che ci ha partorito e ferito. Siamo come il Padre: “Perché siate figli del Padre che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni”. Addirittura Gesù inizia dai cattivi, forse perché i loro occhi sono più in debito di luce, più in ansia. Io che non farò mai sorgere o tramontare nessun sole, posso però far spuntare un grammo di luce, una minima stella. Quante volte ho visto sorgere il sole dentro gli occhi di una persona: bastava un ascolto fatto col cuore, un aiuto concreto, un abbraccio vero! Agisci come il Padre, o amerai il contrario della vita: dona un po' di sole, un po' d'acqua, a chiunque, senza chiederti se lo meriti o no. Perché chi ha meritato un giorno di abbeverarsi all'oceano della Vita, merita di bere oggi al tuo ruscello.

Padre Ermes Ronchi

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