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«I santi non sono super uomini»

 

Papa Francesco lo ha ricordato prima della recita dell'Angelus dalla finestra del Palazzo Apostolico vaticano, proprio nella ricorrenza della festa di Ognissanti. "I santi non sono nati perfetti - ha sottolineato il Papa - sono come noi, come ognuno di noi, persone che prima di raggiungere la gloria del cielo hanno vissuto una vita normale, con gioie e dolori, fatiche e speranze". La differenza con il resto dell'umanità consiste nel fatto che "quando hanno conosciuto l'amore di Dio, lo hanno seguito con tutto il cuore, senza condizioni o ipocrisie; hanno speso la loro vita al servizio degli altri, hanno sopportato sofferenze e avversità, senza odiare e rispondendo al male con il bene, diffondendo gioia e pace". Proprio in tal senso, ha osservato Jorge Mario Bergoglio, "i santi sono uomini e donne che hanno la gioia nel cuore e la trasmettono agli altri". Quindi, il Papa ha esortato che "essere santi non è un privilegio di pochi ma è una vocazione per tutti". Ha spiegato Papa Francesco: "Tutti siamo chiamati a camminare sulla via della santità e questa via ha un nome e un volto, quello di Gesù. Lui nel Vangelo ci mostra la strada: quella delle beatitudini. Il Regno dei cieli, infatti, è per quanti non pongono la loro sicurezza nelle cose ma nell'amore di Dio; per quanti hanno un cuore semplice, umile; non presumono di essere giusti e non giudicano gli altri; per quanto sanno soffrire con chi soffre e gioire con chi gioisce; per quanto non sono violenti e misericordiosi e cercano di essere artefici di riconciliazione e di pace"…….

Quando Gesù si autoinvita alla nostra tavola

Gesù passando alzò lo sguardo. Zaccheo cerca di vedere Gesù e scopre di essere guardato. Il cercatore si accorge di essere cercato: Zaccheo, scendi, oggi devo fermarmi a casa tua. Il nome proprio, prima di tutto. La misericordia è tenerezza che chiama ognuno per nome. Non dice: Zaccheo, scendi e cambia vita; scendi e andiamo a pregare... Se avesse detto così, non sarebbe successo nulla: quelle parole Zaccheo le aveva già sentite da tutti i pii farisei della città. Zaccheo prima incontra, poi si converte. Da Gesù nessuna richiesta di confessare o espiare il peccato, come del resto non accade mai nel Vangelo; quello che Gesù dichiara è il suo bisogno di stare con lui: "devo venire a casa tua. Devo, lo desidero, ho bisogno di entrare nel tuo mondo. Non ti voglio portare nel mio mondo, come un qualsiasi predicatore fondamentalista; voglio entrare io nel tuo, parlare con il tuo linguaggio piano e semplice". E non pone nessuna condizione all'incontro, perché la misericordia fa così: previene, anticipa, precede. Non pone nessuna clausola, apre sentieri, insegna respiri e orizzonti. È lo scandalo della misericordia incondizionata. Devo venire a casa tua. Ma poi non basta. Non solo a casa tua, ma alla tua tavola. La tavola che è il luogo dell'amicizia, dove si fa e di rifà la vita, dove ci si nutre gli uni degli altri, dove l'amicizia si rallegra di sguardi e si rafforza di intese; che stabilisce legami, unisce i commensali... Quelle tavole attorno alle quali Gesù riunisce i peccatori sono lo specchio e la frontiera avanzata del suo programma messianico. Dio alla mia tavola, come un familiare, intimo come una persona cara, un Dio alla portata di tutti. Ecco il metodo sconcertante di Gesù: cambia i peccatori mangiando con loro, cioè condividendo cibo e vita; non cala prediche dall'alto del pulpito, ma si ferma ad altezza di occhi, a millimetro di sguardi. Ammonisce senza averne l'aria, con la sorpresa dell'amicizia, che ripara le vite in frantumi. Zaccheo reagisce alla presenza di Gesù cambiando segno alla sua vita, facendo quello che il maestro non gli aveva neppure chiesto, facendo più di quello che la Legge imponeva: ecco qui, Signore, la metà dei miei beni per i poveri; e se ho rubato, restituisco quattro volte tanto. Qual è il motore di questa trasformazione? Lo sbalordimento per la misericordia, una impensata, immeritata, non richiesta misericordia; lo stupore per l'amicizia. Gesù non ha elencato gli errori di Zaccheo, non l'ha giudicato, non ha puntato il dito. Ha offerto se stesso in amicizia, gli ha dato credito, un credito totale e immeritato. Il peccatore si scopre amato. Amato senza meriti, senza un perché. Semplicemente amato. E allora rinasce.

padre Ermes Ronchi

L'«ego» del fariseo e il «cuore» del pubblicano

Due uomini vanno al tempio a pregare. Uno, ritto in piedi, prega ma come rivolto a se stesso: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, impuri...». Inizia con le parole giuste, l'avvio è biblico: metà dei Salmi sono di lode e ringraziamento. Ma mentre a parole si rivolge a Dio, il fariseo in realtà è centrato su se stesso, stregato da una parola di due sole lettere, che non si stanca di ripetere, io: io ringrazio, io non sono, io digiuno, io pago. Ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Pregare è dare del tu a Dio. Vivere e pregare percorrono la stessa strada profonda: la ricerca mai arresa di un tu, un amore, un sogno o un Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero. «Io non sono come gli altri»: e il mondo gli appare come un covo di ladri, dediti alla rapina, al sesso, all'imbroglio. Una slogatura dell'anima: non si può pregare e disprezzare; non si può cantare il gregoriano in chiesa e fuori essere spietati. Non si può lodare Dio e demonizzare i suoi figli. Questa è la paralisi dell'anima. In questa parabola di battaglia, Gesù ha l'audacia di denunciare che la preghiera può separarci da Dio, può renderci "atei", mettendoci in relazione con un Dio che non esiste, che è solo una proiezione di noi stessi. Sbagliarci su Dio è il peggio che ci possa capitare, perché poi ci si sbaglia su tutto, sull'uomo, su noi stessi, sulla storia, sul mondo (Turoldo) Il pubblicano, grumo di umanità curva in fondo al tempio, ci insegna a non sbagliarci su Dio e su noi: fermatosi a distanza, si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». C'è una piccola parola che cambia tutto nella preghiera del pubblicano e la fa vera: «tu». Parola cardine del mondo: «Signore, tu abbi pietà». E mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che egli fa per Dio (io prego, pago, digiuno...), il pubblicano la costruisce attorno a quello che Dio fa per lui (tu hai pietà di me peccatore) e si crea il contatto: un io e un tu entrano in relazione, qualcosa va e viene tra il fondo del cuore e il fondo del cielo. Come un gemito che dice: «Sono un ladro, è vero, ma così non sto bene, così non sono contento. Vorrei tanto essere diverso, non ce la faccio, ma tu perdona e aiuta». «Tornò a casa sua giustificato». Il pubblicano è perdonato non perché migliore o più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza, la sola forza che ripartorisce in noi la vita. 

padre Ermes Ronchi

La lezione di preghiera della vedova che non si arrende

Disse una parabola sulla necessità di pregare sempre. E a noi pare un obiettivo impossibile da raggiungere. Ma il pregare sempre non va confuso con il recitare preghiere senza interruzione, Gesù stesso l'ha detto: quando pregate non moltiplicate parole. Vale più un istante nell'intimità che mille salmi nella lontananza (Evagrio il Pontico). Perché pregare è come voler bene. Infatti c'è sempre tempo per voler bene: se ami qualcuno, lo ami sempre. Così è con Dio: «il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre» (S. Agostino).

Il Vangelo ci porta a scuola di preghiera da una vedova, una bella figura di donna, forte e dignitosa, che non si arrende, fragile e indomita al tempo stesso. Ha subito ingiustizia e non abbassa la testa.

C'era un giudice corrotto. E una vedova si recava ogni giorno da lui e gli chiedeva: fammi giustizia contro il mio avversario!

Gesù lungo tutto il Vangelo ha una predilezione particolare per le donne sole, perché rappresentano l'intera categoria biblica dei senza difesa, vedove orfani forestieri, i difesi da Dio.

Una donna che non si lascia schiacciare ci rivela che la preghiera è un "no" gridato al "così vanno le cose", è come il primo vagito di una storia nuova che nasce. Perché pregare? È come chiedere: perché respirare? Per vivere. La preghiera è il respiro della fede. Come un canale aperto in cui scorre l'ossigeno dell'infinito, un riattaccare continuamente la terra al cielo. Come per due che si amano, il respiro del loro amore.

Forse tutti ci siamo qualche volta stancati di pregare. Le preghiere si alzavano in volo dal cuore come colombe dall'arca del diluvio, ma nessuna tornava indietro a portare una risposta. E mi sono chiesto, e mi hanno chiesto, tante volte: ma Dio esaudisce le nostre preghiere, si o no? La risposta di un grande credente, il martire Bonhoeffer è questa: «Dio esaudisce sempre, ma non le nostre richieste bensì le sue promesse». E il Vangelo ne è pieno: non vi lascerò orfani, sarò con voi, tutti i giorni, fino alla fine del tempo.

Non si prega per cambiare la volontà di Dio, ma il cuore dell'uomo. Non si prega per ottenere, ma per essere trasformati. Contemplando il Signore veniamo trasformati in quella stessa immagine (cfr 2 Corinzi 3,18). Contemplare, trasforma. Uno diventa ciò che contempla con gli occhi del cuore. Uno diventa ciò che prega. Uno diventa ciò che ama.

Infatti, dicono i maestri dello spirito «Dio non può dare nulla di meno di se stesso, ma dandoci se stesso ci dà tutto» (Santa Caterina da Siena). Ottenere Dio da Dio, questo è il primo miracolo della preghiera. E sentire il suo respiro intrecciato per sempre con il mio respiro

 
padre Ermes Ronchi

Gesù ha «fretta» di guarire l'uomo

Gesù è in cammino. E come lungo ogni cammino, la lentezza favorisce gli incontri, l'attenzione trasforma ogni incontro in evento. Ed ecco che dieci lebbrosi, una comunità senza speranza, un nodo di dolore, all'improvviso si pone di traverso sulla strada dei dodici.

E Gesù appena li vede... notiamo: subito, senza aspettare un secondo di più, "appena li vede", prima ancora di sentire il loro lamento. Gesù ha l'ansia di guarire, il suo amore ha fretta, è amore preveniente, amore che anticipa, pastore che sfida il deserto per una pecora che non c'è più, padre che corre incontro mentre il figlio cammina...

Davanti al dolore dell'uomo, appaiono i tre verbi dell'agire di Cristo: vedere, fermarsi, toccare, anche se solo con la carezza della parola.

Davanti al dolore scatta come un'urgenza, una fretta di bene: non devono soffrire neanche un secondo di più. E mi ricorda un verso bellissimo di Ian Twardowski: affrettiamoci ad amare, le persone se ne vanno così presto! L'amore vero ha sempre fretta. È sempre in ritardo sulla fame di abbracci o di salute. Andate... E mentre andavano, furono purificati. Sono purificati non quando arrivano dai sacerdoti, ma mentre camminano. La guarigione comincia con il primo passo compiuto credendo alla parola di Gesù. La vita guarisce non perché raggiunge la meta, ma quando salpa, quando avvia processi e inizia percorsi.

Nove lebbrosi guariscono e non sappiamo più nulla di loro, probabilmente scompaiono dentro il vortice della loro inattesa felicità, sequestrati dagli abbracci ritrovati, ridiventati persone libere e normali.

Invece un samaritano, uno straniero, l'ultimo della fila, si vede guarito, si ferma, si gira, torna indietro, perché intuisce che la salute non viene dai sacerdoti, ma da Gesù; non dalla osservanza di regole e riti, ma dal contatto con la persona di quel rabbi. Non compie nessun gesto eclatante: torna, canta, lo stringe, dice un semplice grazie, ma contagia di gioia.

Ancora una volta il Vangelo propone un samaritano, uno straniero, un eretico come modello di fede: la tua fede ti ha salvato. La fede che salva non è una professione verbale, non si compone di formule ma di gesti pieni di cuore: il ritorno, il grido di gioia, l'abbraccio che stringe i piedi di Gesù.

Il centro della narrazione è la fede che salva. Tutti e dieci sono guariti. Tutti e dieci hanno creduto alla parola, si sono fidati e si sono messi in cammino. Ma uno solo è salvato. Altro è essere guariti, altro essere salvati. Nella guarigione si chiudono le piaghe, rinasce una pelle di primavera. Nella salvezza ritrovi la sorgente, tu entri in Dio e Dio entra in te, e fiorisce tutta intera la tua vita

padre Ermes Ronchi

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