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Amare gli altri: non ‘quanto’ ma ‘come’ ha fatto Gesù

Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Ma si può comandare di amare? Un amore imposto è una caricatura, frustrante per chi ama, ingannatore per chi è amato.
Amare, nella logica del Vangelo, non è un obbligo, ma una necessità per vivere, come respirare: «Abbiamo bisogno tutti di molto amore per vivere bene» (J. Maritain). È comandamento nel senso di fondamento del destino del mondo e della sorte di ognuno: amatevi gli uni gli altri, cioè tutti, altrimenti la ragione sarà sempre del più forte, del più violento o del più astuto.
«Nuovo» lo dichiara Gesù. In che cosa consiste la novità di queste parole se anche nella legge di Mosè erano già riportate: amerai il prossimo tuo come te stesso?
Essa emerge dalle parole successive. Gesù non dice semplicemente «amate». Non basta amare, potrebbe essere solo una forma di possesso e di potere sull'altro, un amore che prende tutto e non dona niente. Ci sono anche amori violenti e disperati. Amori molto tristi e perfino distruttivi.
Il Vangelo aggiunge una parola particolare: amatevi gli uni gli altri. In un rapporto di comunione, in un faccia a faccia, a tu per tu. Nella reciprocità: amore dato e ricevuto; dare e ricevere amore è ciò su cui si pesa la felicità di questa vita.
Non si ama l'umanità in generale; si ama quest'uomo, questo bambino, questo straniero, questo volto. Immergendosi nella sua intimità concreta. Si amano le persone ad una ad una, volto per volto. O dodici a dodici, come ha fatto Francesco con i dodici profughi siriani di Lesbo.
Ma la novità evangelica non si riduce soltanto a questo. Gesù aggiunge il segreto della differenza cristiana: come io ho amato voi, così amatevi gli uni gli altri.
Lo specifico del cristiano non è amare, lo fanno già molti, in molti modi, sotto tutti i cieli. Bensì amare come Gesù. Non quanto lui, impossibile per noi vivere la sua misura, ma come, con lo stile unico di Gesù, con la rivoluzione della tenerezza combattiva, con i capovolgimenti che ha portato. Libero e creativo, ha fatto cose che nessuno aveva fatto mai: se io vi ho lavato i piedi così fate anche voi, fatelo a partire dai più stanchi, dai più piccoli, dagli ultimi. Gesù ama per primo, ama in perdita, ama senza contare. Venuto come racconto inedito della tenerezza del Padre.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. «Non basta essere credenti, dobbiamo essere anche credibili» (Rosario Livatino). Dio non si dimostra, si mostra.
Ognuno deve farsi, come Lui, racconto inedito del volto d'amore di Dio, canale non intasato, vena non ostruita, attraverso la quale l'amore, come acqua che feconda, circoli nel corpo del mondo.

padre Ermes Ronchi

Il pastore che parla al cuore, che conosce cosa lo abita

Le mie pecore ascoltano la mia voce. Prima grande sorpresa: una voce attraversa le distanze, un io si rivolge a un tu, il cielo non è vuoto.
Perché le pecore ascoltano? Perché il pastore non si impone, si propone; perché quella voce parla al cuore, e risponde alle domande più profonde di ogni vita.
Io conosco le mie pecore. Per questo la voce tocca ed è ascoltata: perché conosce cosa abita il cuore. La samaritana al pozzo aveva detto: venite, c'è uno che mi ha detto tutto di me. Bellissima definizione del Signore: Colui che dice il tutto dell'uomo, che risponde ai perché ultimi dell'esistenza.
Le mie pecore mi seguono. Seguono il pastore perché si fidano di lui, perché con lui è possibile vivere meglio, per tutti. Seguono lui, cioè vivono una vita come la sua, diventano in qualche modo pastori, e voce nei silenzi, e nelle vite degli altri datori di vita.
Il Vangelo mostra le tre caratteristiche del pastore: Io do loro la vita eterna / non andranno mai perdute / nessuno le rapirà dalla mia mano!
Io do la vita eterna, adesso, non alla fine del tempo. È salute dell'anima ascoltare, respirare queste parole: Io do loro la vita eterna! Senza condizioni, prima di qualsiasi risposta, senza paletti e confini. La vita di Dio è data, seminata in me come un seme potente, seme di fuoco nella mia terra nera. Come linfa che risale senza stancarsi, giorno e notte, e si dirama per tutti i tralci, dentro tutte le gemme. Le vicende di Galilea, la tragedia del Golgota, le parole di Cristo, che vengono come fiamma e come manna, non hanno altro scopo che questo: darci una vita piena di cose che meritano di non morire, di una qualità e consistenza capaci di attraversare l'eternità.
Il Vangelo prosegue con un raddoppio straordinario: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Poi, come se avessimo ancora dei dubbi: nessuno le può strappare dalla mano del Padre.
È il pastore della combattiva tenerezza.
Io sono un amato non strappabile dalle mani di Dio, legame non lacerabile. Come passeri abbiamo il nido nelle sue mani, come bambini ci aggrappiamo forte a quella mano che non ci lascerà cadere, come innamorati cerchiamo quella mano che scalda la solitudine, come crocefissi ripetiamo: nelle tue mani affido la mia vita.
Il Vangelo è una storia di mani, un amore di mani.
Mani di pastore forte contro i lupi, mani tenere impigliate nel folto della mia vita, mani che proteggono il mio lucignolo fumigante, mani sugli occhi del cieco, mani che sollevano la donna adultera a terra, mani sui piedi dei discepoli, mani inchiodate e poi ancora offerte: Tommaso, metti il dito nel foro del chiodo! Mani piagate offerte come una carezza perché io ci riposi e riprenda il fiato del coraggio.

padre Ermes Ronchi

Alla fine saremo tutti giudicati sull'amore

In riva al lago, una delle domande più alte ed esigenti di tutta la Bibbia: «Pietro, tu mi ami?». È commovente l'umanità del Risorto: implora amore, amore umano. Può andarsene, se è rassicurato di essere amato. Non chiede: Simone, hai capito il mio annuncio? Hai chiaro il senso della croce? Dice: lascio tutto all'amore, e non a progetti di qualsiasi tipo. Ora devo andare, e vi lascio con una domanda: ho suscitato amore in voi? In realtà, le domande di Gesù sono tre, ogni volta diverse, come tre tappe attraverso le quali si avvicina passo passo a Pietro, alla sua misura, al suo fragile entusiasmo.

Prima domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gesù adopera il verbo dell'agàpe, il verbo dell'amore grande, del massimo possibile, del confronto vincente su tutto e su tutti. Pietro non risponde con precisione, evita sia il confronto con gli altri sia il verbo di Gesù: adotta il termine umile dell'amicizia, philéo. Non osa affermare che ama, tanto meno più degli altri, un velo d'ombra sulle sue parole: certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene, ti sono amico!

Seconda domanda: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Non importano più i confronti con gli altri, ognuno ha la sua misura. Ma c'è amore, amore vero per me? E Pietro risponde affidandosi ancora al nostro verbo sommesso, quello più rassicurante, più umano, più vicino, che conosciamo bene; si aggrappa all'amicizia e dice: Signore, io ti sono amico, lo sai! Terza domanda: Gesù riduce ancora le sue esigenze e si avvicina al cuore di Pietro. Il Creatore si fa a immagine della creatura e prende lui a impiegare i nostri verbi: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene, mi sei amico?». L'affetto almeno, se l'amore è troppo; l'amicizia almeno, se l'amore ti mette paura. «Pietro, un po' di affetto posso averlo da te?».

Gesù dimostra il suo amore abbassando ogni volta le sue attese, dimenticando lo sfolgorio dell'agàpe, ponendosi a livello della sua creatura: l'amore vero mette il tu prima dell'io, si mette ai piedi dell'amato. Pietro sente il pianto salirgli in gola: vede Dio mendicante d'amore, Dio delle briciole, cui basta così poco, con la sincerità del cuore. Quando interroga Pietro, Gesù interroga me. E l'argomento è l'amore. Non è la perfezione che lui cerca in me, ma l'autenticità. Alla sera della vita saremo giudicati sull'amore (Giovanni della Croce). E quando questa si aprirà sul giorno senza tramonto, il Signore ancora una volta ci chiederà soltanto: mi vuoi bene? E se anche l'avrò tradito per mille volte, lui per mille volte mi chiederà: mi vuoi bene? E non dovrò fare altro che rispondere, per mille volte: sì, ti voglio bene. E piangeremo insieme di gioia.

padre Ermes Ronchi

La Risurrezione non annulla la croce, vertice dell'amore

La sera di Pasqua il Signore entra in quella stanza chiusa, porte e finestre sbarrate, dove manca l'aria e si respira paura. Solo Tommaso ha il coraggio di andare e venire.
Soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. Su quel pugno di creature, chiuse e impaurite, inaffidabili, scende il vento delle origini, il vento che soffiava sugli abissi, che scuote le porte chiuse del cenacolo: come il Padre ha mandato me anch'io mando voi. Voi come me. E li manda così come sono, poca cosa davvero, un gruppetto alla sbando. Ma ora c'è in loro "un di più": c'è il suo Spirito, il segreto di Gesù, il suo respiro, ciò che lo fa vivere: a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati. Ecco il respiro, l'essenza, lo spirito di Dio: per vivere Dio ha bisogno di perdonare. Per essere Padre ha la necessità di abbracciare ogni figlio che torna, deve andare da ogni figlio maggiore che non capisce, cercare ogni pecora che si perde. La misericordia è un bisogno di Dio, non un attributo fra altri, ma l'identità stessa del Padre, una necessità: oggi devo fermarmi a casa tua.
Prima missione, primo lavoro, prima evangelizzazione che consegna ai riempiti del Soffio di Dio: voi perdonerete..., con l'atto creativo del perdono che riapre il futuro, che tira fuori la farfalla dal bruco, dal verme che mi sembra o temo di essere.
Otto giorni dopo è ancora lì: l'abbandonato ritorna da quelli che sanno solo abbandonare. Li ha inviati per le strade, e li ritrova ancora in quella stanza chiusa. Ma Gesù accompagna con delicatezza infinita la fede piccola dei suoi, con umanità suprema gestisce l'imperfezione delle vite di tutti. Non ci chiede di essere perfetti, ma di essere autentici; non di essere immacolati, ma di essere incamminati.
E si rivolge a Tommaso che lui aveva educato alla libertà interiore, a dissentire, che lui aveva fatto rigoroso e coraggioso, grande in umanità.
Invece di imporsi, si propone alle sue mani: Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco. Gesù rispetta la sua fatica e i suoi dubbi; rispetta i tempi di ciascuno e la complessità del vivere. Lui non si scandalizza, si ripropone, anzi si espone con le sue ferite aperte.
La risurrezione non annulla la croce, non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Croce e Pasqua sono un unico movimento, un'unica vicenda. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare, da annullare, è invece qualcosa che deve restare per l'eternità, gloria e vanto di Cristo: le sue piaghe sono il vertice dell'amore, le sue ferite sono diventate le feritoie della più grande bellezza della storia.

padre Ermes Ronchi

Quel seme di Risurrezione che si scorge in un sorriso

Maria di Magdala, in quell'ora tra il buio e la luce, tra la notte e il giorno, quando le cose non si vedono ma supplisce il cuore, va sola, e non ha paura. Come la sposa del Cantico: lungo la notte cerco l'amato del mio cuore.
L'alba di Pasqua è piena di coloro che più forte hanno fatto l'esperienza dell'amore di Gesù: Maria di Magdala, il discepolo amato, Pietro, le donne.
Il primo segno è così umile: non un'apparizione gloriosa, ma un sepolcro vuoto nel fresco dell'alba. È poco e non è facile da capire. E Maria non capisce, corre da Pietro non per annunciare la risurrezione del Maestro ma per denunciare una manovra dei nemici, un ulteriore dolore: hanno portato via il Signore. Non abbiamo più neanche un corpo su cui piangere.
Tutti corrono in quel primo mattino: Maria, Pietro, Giovanni... Non si corre così per una perdita o per un lutto. Ma perché spunta qualcosa di immenso, fa capolino, urge il parto di una cosa enorme, confusa e grandiosa.
Arrivano al sepolcro e li aiuta un altro piccolo segno: i teli posati, il sudario avvolto con cura. Se qualcuno avesse portato via il corpo, non l'avrebbe liberato dai teli o dal sudario. È stato altro a liberare la carne e la bellezza di Gesù dal velo oscuro della morte.
La nostra fede inizia da un corpo assente. Nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto delle vittime, manca un corpo alla contabilità della morte. I suoi conti sono in perdita. E questo apre una breccia, uno spazio di rivolta, un tuffo oltre la vita uccisa: la morte non vincerà per sempre.
Anche se adesso sembra vincente: il male del mondo mi fa dubitare della Pasqua, è troppo; il terrorismo, il cancro, la corruzione, il moltiplicarsi di muri, barriere e naufragi; bambini che non hanno cibo, acqua, casa, amore; la finanza padrona dell'uomo mi fanno dubitare. Ma poi vedo immense energie di bene, donne e uomini che trasmettono vita e la custodiscono con divino amore; vedo giovani forti prendersi cura dei deboli; anziani creatori di giustizia e di bellezza; gente onesta fin nelle piccole cose; vedo occhi di luce e sorrisi più belli di quanto la vita non lo permetta. Questi uomini e queste donne sono nati il mattino di Pasqua, hanno dentro il seme di Pasqua, il cromosoma del Risorto.
Perché Cristo non è semplicemente il Risorto. Egli è la Risurrezione stessa, è l'azione, l'atto, la linfa continua del risorgere, che fa ripartire da capo la vita, la conduce di inizio in inizio, trascinandola in alto con sé: forza ascensionale del cosmo verso più luminosa vita. E non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell'ultima anima, e le sue forze non arrivino a far fiorire «l'ultimo ramo della creazione» (M. Luzi).

padre Ermes Ronchi

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