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Pregare cambia il cuore, diventi ciò che ami

Dal deserto al Tabor; dalla domenica dell'ombra che ci minaccia, alla domenica della luce che ci abita. Ciò che è avvenuto in Cristo avverrà in ciascuno, lui è il volto ultimo e alto dell'uomo, icona di Dio dipinta, come le antiche icone greche, su di un fondo d'oro, che traspare dalle ferite e dai graffi della vita, come da misteriose feritoie. Il racconto della trasfigurazione è collocato in un contesto duro e difficile: Gesù ha appena consegnato ai suoi il primo annuncio della passione: il figlio dell'uomo deve soffrire molto, essere rifiutato, venire ucciso. E subito, dentro quel momento di oscurità, il vangelo ci regala il volto di Cristo che gronda luce, su cui tenere fissi gli occhi per affrontare il momento in cui la vita gronda sangue, per tutti, come per Gesù nell'orto degli ulivi.
Gesù salì su di un alto monte a pregare. I monti sono come indici puntati verso il cielo, verso il mistero di Dio e la sua salvezza, raccontano che la vita è un ascendere silenzioso e tenace verso più luce, più orizzonti, più cielo.
Gesù sale per pregare. La preghiera è mettersi in viaggio: destinazione Tabor, un battesimo di luce e di silenzio; destinazione futuro, un futuro più buono; approdo è il cuore di luce di Dio.
Mentre pregava il suo volto cambiò di aspetto. Pregare trasforma. Pregare cambia il cuore, tu diventi ciò che contempli, ciò che ascolti, ciò che ami, Colui che preghi: è nel contatto con il Padre che la nostra realtà si illumina, e appare in tutta la sua lucentezza e profondità.
In qualche momento privilegiato, toccati dalla gioia, dalla dolcezza di Dio, forse ci è capitato di dire, come Pietro: Signore, che bello! Vorrei che questo momento durasse per sempre. Facciamo qui tre tende? E una voce interiore diceva: è bello stare su questa terra, gravida di luce. È bello essere uomini, dentro questa umanità che pian piano si libera, cresce, ascende. È bello vivere.
Le parole di Pietro trasmettono una esperienza precisa: Dio è bello. Invece La nostra predicazione ha ridotto Dio in miseria, relegato a rovistare nel passato e nel peccato dell'uomo. Ora sta a noi restituirgli il suo volto solare, testimoniare un Dio bello, desiderabile, interessante. Il Dio del futuro, delle fioriture, un Dio da gustare e da godere. Come san Francesco quando prega: tu sei bellezza, tu sei bellezza. Come sant'Agostino: tardi ti ho amato bellezza tanto antica e tanto nuova. Sarà come bere alle sorgenti della luce, agli orli dell'infinito.
Davvero il cristianesimo è proprio la religione della penitenza, della mortificazione, del sacrificio, come molti pensano? No, il vangelo è la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore.

padre Ermes Ronchi

Le tentazioni? Non si evitano, sono da «attraversare»

 

Le tentazioni di Gesù sono le forze, le lusinghe che mettono ogni uomo davanti alle scelte di fondo della vita. Ognuno tentato di ridurre i suoi sogni a pane, a denaro, di trasformare tutto, anche la terra e la bellezza, in cose da consumare. Ognuno tentatore di Dio: fammi, dammi, risolvi i miei problemi, manda angeli. Buttarsi nel vuoto e aspettare un volo d'angeli, non è fede, ma la sua caricatura: cercare il Dio dei miracoli, il bancomat delle grazie, colui che agisce al posto mio invece che insieme con me, forza della mia forza, luce sul mio cammino. Ognuno tentato dal piacere di comandare, decidere, arrivare più in alto. Io so la strada, dice lo Spirito cattivo: vénditi! Vendi la tua dignità e la tua libertà, baratta l'amore e la famiglia... Le tre tentazioni tracciano le relazioni fondamentali di ogni uomo: ognuno tentato verso se stesso, pietre o pane; verso gli altri, potere o servizio; verso Dio, lui a mia disposizione. Le tentazioni non si evitano, si attraversano. Attraversare le tentazioni significa in realtà fare ordine nella propria fede. La prima: che queste pietre diventino pane! Non di solo pane vive l'uomo... Il pane è buono ma più buona è la parola di Dio. Il pane è indispensabile, eppure contano di più altre cose: le creature, gli affetti, le relazioni, l'eterno in noi. L'uomo vive di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Dalla sua parola sono venuti la luce, il cosmo e la sua bellezza, il respiro che ci fa vivere. Sei venuto tu, fratello mio, mio amico, amore mio: parola pronunciata da Dio per me. L'uomo vive di vangelo e di creature. La seconda tentazione è una sfida aperta a Dio. «Buttati giù, chiedi a Dio un miracolo». Ciò che Pietro, con la sua irruenza, chiede al Maestro, una sera sul lago: fammi venire a te camminando sulle acque. Fa tre passi nel miracolo eppure comincia ad affondare. Tocca con mano il prodigio, lo vive, eppure nasce paura e comincia ad affondare. I miracoli non servono per credere: Gesù ha fatto fiorire di prodigi Galilea e Samaria, eppure i suoi lo vogliono buttare giù dal monte di Nazaret. «Nel mondo ce ne sono fin troppi di miracoli» (M. De Certeau) eppure la fede è così poca, così a rischio. Nella terza tentazione il diavolo rilancia: venditi alla mia logica, e avrai tutto. Il diavolo fa un mercato con l'uomo: io ti do, tu mi dai. Esattamente il contrario di Dio, che ama per primo, ama in perdita, ama senza contraccambio. Vuoi avere le folle con te? Assicura pane, potere, successo e ti seguiranno. Ma Gesù non vuole "possedere" nessuno. Lui vuole essere amato da questi splendidi e meschini figli. Non ossequiato da schiavi obbedienti, ma amato da figli liberi, generosi e felici.

padre Ermes Ronchi

L a fecondità è la prima legge di un albero

L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene. Il buon tesoro del cuore: una definizione così bella, così piena di speranza, di ciò che siamo nel nostro intimo mistero. Abbiamo tutti un tesoro buono custodito in vasi d'argilla, oro fino da distribuire. Anzi il primo tesoro è il nostro cuore stesso: «un uomo vale quanto vale il suo cuore» (Gandhi).
La nostra vita è viva se abbiamo coltivato tesori di speranza, la passione per il bene possibile, per il sorriso possibile, la buona politica possibile, una “casa comune” dove sia possibile vivere meglio per tutti. La nostra vita è viva quando ha cuore. Gesù porta a compimento la religione antica su due direttrici: la linea della persona, che viene prima della legge, e poi la linea del cuore, delle motivazioni profonde, delle radici buone.
Accade come per gli alberi: l'albero buono non produce frutti guasti. Gesù ci porta alla scuola della sapienza degli alberi.
La prima legge di un albero è la fecondità, il frutto. Ed è la stessa regola di fondo che ispira la morale evangelica: un'etica del frutto buono, della fecondità creativa, del gesto che fa bene davvero, della parola che consola davvero e guarisce, del sorriso autentico. Nel giudizio finale (Matteo 25), non tribunale ma rivelazione della verità ultima del vivere, il dramma non saranno le nostre mani forse sporche, ma le mani desolatamente vuote, senza frutti buoni offerti alla fame d'altri. Invece gli alberi, la natura intera, mostrano come non si viva in funzione di se stessi ma al servizio delle creature: infatti ad ogni autunno ci incanta lo spettacolo dei rami gonfi di frutti, un eccesso, uno scialo, uno spreco di semi, che sono per gli uccelli del cielo, per gli animali della terra, per gli insetti come per i figli dell'uomo.
Le leggi profonde che reggono la realtà sono le stesse che reggono la vita spirituale. Il cuore del cosmo non dice sopravvivenza, la legge profonda della vita è dare. Cioè crescere e fiorire, creare e donare. Come alberi buoni. Ma abbiamo anche una radice di male in noi. Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello? Perché ti perdi a cercare fuscelli, a guardare l'ombra anziché la luce di quell'occhio? Non è così lo sguardo di Dio. L'occhio del Creatore vide che l'uomo era cosa molto buona! Dio vede l'uomo molto buono perché ha un cuore di luce. L'occhio cattivo emana oscurità, diffonde amore per l'ombra.
L'occhio buono è come lucerna, diffonde luce. Non cerca travi o pagliuzze o occhi feriti, i nostri cattivi tesori, ma si posa su di un Eden di cui nessuno è privo: «con ogni cura veglia sul tuo cuore perché è la sorgente della vita» (Proverbi 4,23).

padre Ermes Ronchi

Amare i nemici: un'utopia?

Il vangelo di oggi (Luca 6,27-38) è la diretta continuazione di quello di domenica scorsa. Alla folla accorsa a lui da ogni dove, Gesù espone i caratteri fondamentali della sua etica, cioè le regole di comportamento per chi vuole essere suo seguace. “Beati i poveri; guai ai ricchi”, aveva detto, e il seguito di oggi chiarisce che non è una questione di portafogli: cioè poveri e ricchi non sono quelli che comunemente si intende, cioè quanti vivono in strettezze o nell'abbondanza; i ricchi sui quali pesa la sua riprovazione sono coloro che pensano solo a sé stessi, a quanto questo mondo può offrire, ricercandolo con ogni mezzo, lecito o no, mentre i poveri sono coloro che mirano al mondo venturo, cui arriveranno se in questo si propongono il bene, per sé ma anche per gli altri.

Di qui la regola d'oro, che a molti pare così difficile da seguire: “Amate i vostri nemici. Come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro”. Ed esemplifica: “Fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da' a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro”. Seguono le ragioni che motivano un tale comportamento: “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso...”. I cristiani cioè devono essere migliori degli altri, qui detti “i peccatori”, corrispondenti ai “ricchi” del discorso precedente.

Migliori degli altri: ma perché? Perché, spiega Gesù, così facendo “la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso... Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi in cambio”. Dunque la regola dei nostri comportamenti non deve essere quella della personale convenienza, ma quella che segue lo stesso Signore, il quale non fulmina chi si comporta male ma anzi è sempre disposto a perdonare, e non si stanca mai di elargire i suoi benefici a chiunque dimostri nei fatti di volerli accogliere. Di più: come Gesù insegna a dire col Padre nostro (“Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”), dobbiamo stare attenti, perché il Padre ci tratterà come noi avremo trattato i nostri simili.

Difficile? Sì, certo, ma non impossibile, con l'aiuto che Dio ci concede. E sono molti gli esempi che lo dicono possibile: le vite dei santi, così poco conosciute, di esempi ne offrono quanti se ne vuole, con i tanti altri di cui si vedono i frutti: ad esempio i missionari, oppure quanti rendono attive la Caritas e le altre opere che sono sorte o si reggono sulla disponibilità di chi magari non riceve neppure un grazie. Tra quanti hanno saputo perdonare, ricordiamo tutti la foto del papa [Giovanni Paolo II] nella cella di chi lo aveva ridotto in fin di vita: miracolosamente sopravvissuto, ha voluto andare di persona a portare al nemico il suo perdono. E su tutti domina l'esempio di Colui che non ha esitato a venire in questo mondo, pur sapendo a che cosa andava incontro, e dopo una vita volta al bene anche dei nemici ha perdonato persino coloro che lo stavano inchiodando alla croce. Non solo: li ha anche giustificati (“Perché non sanno quello che fanno”). Tanto eroismo non è richiesto a tutti, tutti i giorni; ma proprio per questo, in tante piccole cose, come sarebbe diverso il mondo se si imparasse a perdonare! Quante liti di meno in famiglia, tra i colleghi di lavoro, e in tutti gli ambiti della vita consueta, se sapessimo passar sopra ai torti e alle offese e, lungi l'idea di ribattere colpo su colpo o di meditare vendetta, formulare una preghiera per chi ci ha ferito.

mons. Roberto Brunelli

«Beati voi». Ma il nostro pensiero dubita

L'essere umano è un mendicante di felicità, ad essa soltanto vorrebbe obbedire. Gesù lo sa, incontra il nostro desiderio più profondo e risponde.
Per quattro volte annuncia: beati voi, e significa: in piedi voi che piangete, avanti, in cammino, non lasciatevi cadere le braccia, siete la carovana di Dio. Nella Bibbia Dio conosce solo uomini in cammino: verso terra nuova e cieli nuovi, verso un altro modo di essere liberi, cittadini di un regno che viene. Gli uomini e le donne delle beatitudini sono le feritoie per cui passa il mondo nuovo.
Beati voi, poveri! Certo, il pensiero dubita. Beati voi che avete fame, ma nessuna garanzia ci è data. Beati voi che ora piangete, e non sono lacrime di gioia, ma gocce di dolore. Beati quelli che sentono come ferita il disamore del mondo. Beati, perché? Perché povero è bello, perché è buona cosa soffrire? No, ma per un altro motivo, per la risposta di Dio.
La bella notizia è che Dio ha un debole per i deboli, li raccoglie dal fossato della vita, si prende cura di loro, fa avanzare la storia non con la forza, la ricchezza, la sazietà, ma per seminagioni di giustizia e condivisione, per raccolti di pace e lacrime asciugate. E ci saremmo aspettati: beati perché ci sarà un capovolgimento, una alternanza, perché i poveri diventeranno ricchi. No. Il progetto di Dio è più profondo e più delicato.
Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno, qui e adesso, perché avete più spazio per Dio, perché avete il cuore libero, al di là delle cose, affamato di un oltre, perché c'è più futuro in voi. I poveri sono il grembo dove è in gestazione il Regno di Dio, non una categoria assistenziale, ma il laboratorio dove si plasma una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani, una categoria generativa e rivelativa.
Beati i poveri, che di nulla sono proprietari se non del cuore, che non avendo cose da donare hanno se stessi da dare, che sono al tempo stesso mano protesa che chiede, e mano tesa che dona, che tutto ricevono e tutto donano.
Ci sorprende forse il guai. Ma Dio non maledice, Dio è incapace di augurare il male o di desiderarlo. Si tratta non di una minaccia, ma di un avvertimento: se ti riempi di cose, se sazi tutti gli appetiti, se cerchi applausi e il consenso, non sarai mai felice. I guai sono un lamento, anzi il compianto di Gesù su quelli che confondono superfluo ed essenziale, che sono pieni di sé, che si aggrappano alle cose, e non c'è spazio per l'eterno e per l'infinito, non hanno strade nel cuore, come fossero già morti.
Le beatitudini sono la bella notizia che Dio regala vita a chi produce amore, che se uno si fa carico della felicità di qualcuno il Padre si fa carico della sua felicità.

padre Ermes Ronchi

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